Intellettuali e interessi

Marzo 22nd, 2007

Avete notato il numero degli intellettuali in Parlamento? E’ così esiguo che non c’è il numero legale per poter creare una cooperativa culturale (sic!). Mi assicurerete che ce ne sono abbastanza di deputati e senatori che scrivono libri di sociopolitica, o romanzi, e parecchi giornalisti… Vero. Ma non mi riferivo a costoro, intendevo l’Intellettuale con la I maiuscola,  il pensatore politico-filosofo. Come Croce. Come Gentile. Penso, per l’oggi, a Giovanni Sartori, ad Umberto Eco, …. Ma gli intellettuali organici non hanno buona fortuna nei partiti. Bertinotti ha preferito portarsi in parlamento Luxuria e Casarini, piuttosto che un Asor Rosa o altri intellettuali di sinistra. Di Pietro, nella circoscrizione campana, ha inserito in lista De Gregorio; forse costretto a considerarlo per le promesse di voti, portati poi pro domo sua! Appena eletto ha iniziato a sfasciare l’Italia dei Valori. “Intellettuale” anche lui, dato che fa anche l’editore! … Nella politica italiana non si contrappongono più ideologie e valori, ma esclusivamente interessi. E nella lotta per la cupidigia di abbrancare “interessi”, l’altro non è più un concorrente, ma un avversario da battere ad ogni costo, un nemico insomma. Come si può eliminare il tornaconto politico? Bisognerebbe abolire l’indennità di carica. Elargire solo lo stipendio o la pensione che si percepiva prima di accedere in Parlamento. Poi si forniscano i servizi e i rimborsi delle spese sostenute per il mandato elettivo. Pensate sia l’ingenuità di uno che non conosce la macchina mangiasoldi dei partiti? La conosco. Ma dico che è immorale stipendiare chi non produce niente, per esempio i cosiddetti “pianisti”. Abolita la lucrosa indennità di carica, si candideranno al Parlamento solo coloro che hanno vera passione politica, e chi si adopera per la comunità. Forse si danno prebende a chi accompagna malati a Lourdes? o ai tantissimi che s’impegnano nelle migliaia e miglia di associazioni di solidarietà? Quarant’anni fa, Giuseppe Maranini, tra i primi a criticare i partiti, scriveva: “Una democrazia non è tale se non offre agli elettori strumenti validi e intelligibili per scegliere il gruppo dei governanti“. I partiti che ora sono in Parlamento hanno scelto i propri uomini, yesmen e “necessari,” per collegarli nelle commissioni. L’elettore italiano è stufo di quest’andazzo. La perfidia della legge elettorale del passato governo si protende minacciosa sulla stabilità dell’attuale. La sconfitta del capo di governo precedente è sempre astiosa e vendicativa: e quella di Berlusconi si allunga sull’Italia perché, per lui, “fare politica” vuol dire “essere Potere”, anche con la P maiuscola, sceneggiando posture alla Napoleone. Non è un modello: è il totalitarismo più pericoloso, camuffato nel sorriso-esca pro-ingenui.

L’ingenuità di Popper

Marzo 8th, 2007

Il filosofo Popper è un illuso, afferma: “Abbiamo un dovere verso i giovani: insegnargli a costruire un mondo meno violento“. Quel che è accaduto allo stadio di Catania, dove centinaia di giovani hanno sbrancato poliziotti sino a renderne qualcuno a morte, significa che noi genitori non abbiamo impartito nessun’educazione né valore né rispetto per la vita. La sconfitta è più nostra che vostra, ragazzi. Eppure “gli adulti non capiscono niente da soli e i bambini si stufano a spiegar loro ogni volta tutto daccapo (…). Poi, questi adulti, non hanno più tempo ad imparare il nuovo.” (Antoine Saint-Exupére - Il piccolo Principe). Io il libro del piccolo Principe non lo avevo letto da bambino, perché in campagna non era consueto starsene sui libri: “leggere rovina la vista”, diceva qualche vecchia contadina. Bastava avere attenti gli orecchi per satollarsi di racconti della vergara o del vergaro ed essere educati ai diritti e ai doveri. Troppi giovani, oggi, vogliono tutto e sùbito. I diritti portano solo al “volere/voglio”; i doveri impongono “sacrificio” e “dare”. Quando, nel nostro tempo, il giovane scapestrato trova un ostacolo o un impedimento che gli blocca la possibilità d’avere, eccolo annientare, anche col sangue, chi glielo impedisce, considerato come un “nemico”. “O tempora, o mores!” s’alza la voce di Marco Tullio Cicerone. Taluni giovani “normali” mi fanno paura: il loro modo di vivere la gioventù come fosse l’ultima decade dell’esistenza; il contatto con i giovani di altre esperienze o di altre idee politiche che assurge quasi sempre a scontro; il loro essere studenti incapaci di porre domande per costruire il futuro attraverso la cultura… Mi rendo conto che l’educazione come l’ho sperimentato è morta. Dobbiamo ripensarla da cima a fondo. Come? Forse noi genitori ci convertiremo bambini, chissà che non riusciremo a trovare un punto d’incontro. Forse ritorneremo a mettere in riga le generazioni. Diceva Esiodo: “Azioni di giovani, consigli di persone di mezza età, preghiere di vecchi“. Ma pia illusione che ha fatto il tempo (…). Tuttavia mi ha fatto impressione quel ragazzo scuola incontrato l’altro ieri ad un convegno, su un foglio mi ha tracciato le frasi: “Perché non iniziate ad ascoltarci? Nessuno si avvede della nostra solitudine e sete d’amore?“. E’ proprio così.

Il discorso sull’integrazione è sempre proposto dagli specialisti udenti

Marzo 5th, 2007

La questione dell’integrazione dello scolaro sordo è complessa. Non basta dire: accogliamo gli scolari sordi, i disabili in genere nelle scuole e nella società normale. L’ integrazione dovrebbe rendere sereno e felice il sordo. Al contraio lo troviamo ansioso, spesso addirittura aggressivo verso il coetaneo. Accade perché convive con una realtà  non conforme ai bisogni di apprendimento. Allora il dramma non è più l’impossibilità d’udire, è convivere e condividere acriticamente un Sé imitativo, un surrogato di chi integralmente percepisce la comunicazione verbale. Si rinuncia ad essere se stesso, a sperimentare le proprie potenzialità psicointellettive per «copiare» il coetaneo udente che, per la gente comune, è considerato nella norma, valutazione per lo più di stolti che, per un ipotetico recupero della sensorialità uguale agli udenti, inabissano potenzialità proprie della percezione visiva del sordo. Vogliono far sposare un processo di sviluppo psicocognitivo e linguistico sul modello udente, del quale però il sordo non ha la peculiarità dell’interscambio continuo sonoroverbale, la prontezza del referente mnemonico. Eppure, le sirene dell’integrazione, hanno sempre garantito ai familiari che la sordità sarebbe stata superata con la panacea della presenza stimolatrice degli udenti. Iillusione. Potrebbe esserci qualche iniziale entusiamo ma, di lì a poco, sopravviene l’oscurità, vale a dire la mancanza di un progetto appropriato che stimoli la percezione visiva a caricarsi del lavoro dell’udito.

Salgono in cattedra alcuni studiosi di sociologia dell’integrazione che mettono i puntini sulle “i” perché distinguono la tipologia dell’integrazione (Nirje 1969) e (Wolfensberger e altri 1991) presentano differenziazioni, per esempio, annunciano l‘integrazione fisica (sistemazione dei servizi di cui si serve la persona disabile negli ambienti frequentati); l’integrazione funzionale (estensione dell’i. fisica, accesso reale agli ambienti fisici, per es.: ristoranti, mezzi di trasporto. pescine, ecc.); l‘integrazione sociale, cioè gli scambi interpersonali che l’individuo stabilisce nel quartire, scuola, lavoro e nella comunità in generale; l’integrazione personale, vale a dire le interazioni con le persone più vicine: genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici, marito o moglie, bambini; l’integrazione societale è l’esercizio dell’autonomia nella scelta di decidere sulla propria vita e coscienza dei propri diritti; infine l’integrazione organizzazionale che è la capacità di utilizzare i servizi destinati alla popolazione in generale. Pertanto prima di discutere dell’integrazione del sordo nella scuola dovremmo porci  degli interrogativi se abbiamo programmato l’abbattimento delle barriere che egli incontra/trova nei contesti sociali e istituzionali. Se non ci adoperiamo prima che il sordo arrivi nelle strutture scolastiche confermiamo d’essere stolidi e incapaci d’aiutare il sordo. L’integrazione, di cui tanto vaticinano esperti e familiari, alla lunga diviene l’asino di Buridano.

L’albero di rami senza vento

Febbraio 20th, 2007

Presso la casa editrice Iuculano Editore di Pavia (www.iuculanoeditore.it - tel. 0382.539830) è stato pubblicato il mio nuovo libro di poesie «L’albero di rami senza vento».

La Presentazione è del sindaco-poeta di Macerata, Giammario Maulo: “Il silenzio si apre un varco dentro la parola nel nuovo libro di Renato Pigliacampo. E’ il testo della sua maturità poetica: poeta del Silenzio e del riscatto da una condizione di svantaggio che diventa amore per la vita e insegnamento. Ci sono tutti i grandi temi della sua poesia.”

Il libro può essere richiesto all’editore.

Ciò che importa è quello che c’è di diverso

Febbraio 17th, 2007

Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta” (Spinosa). Parole prese in prestito perché entrino in testa. Le avevo ricopiate nella seconda pagina di copertina, in bella vista, del mio Diario. Credevo che avessero un significato per tutti, di più per gli adulti. Di più ancora per chi fa politica. Mi ero sbagliato. Quando uno ha una “storia politica” finisce marchiato. Come le vacche che vanno a pascolo nella contrada Bagnolo di Recanati. Si è spesso costretti a condividere una linea politica perché uno che ha la ‘tesserina’, burattino nelle mani del burattinaio della zona, alzerà la mano secondo le disposizioni di colui che gli ha promesso il posto, “per meriti politici”, quando sarà parlamentare (sic!).

Ce n’è più di uno, dalle nostre parti, che la pensa così. Anche nell’Italia dei Valori. Preferisce far rischiare il partito, che scompaia, piuttosto d’aprire la porta ai capaci, coloro che ardono di passione. Quest’ultimi sono tenuti dai soliti “capetti”, i quali preferiscono non confrontarsi e proseguono nella routine del bla-bla. Una volta mi è capitato di scuotere la platea politica con delle frasi del poeta Nolan, tetraplegico: “Accettatemi per ciò che sono e io vi accetterò per come voi siete accettati“. Obbligato a parlare così perché tra i tanti blateranti non ce ne era alcuno che avesse volontà solidale di riassumermi labialmente o per iscritto quanto veniva detto nel dibattito. Eppure ce ne sono tanti a criticare “quello che non fanno le altre fazioni per i disabili”, ma ahimé anche i nostri sono forgiati sulla stessa cultura del pregiudizi e di interessi infimi. Com’è lungi l’invocazione del procuratore capo di Milano, Borrelli: “Resistere, resistere, resistere!” E pur noi, nel partito, in attesa che rientri Di Pietro (il nostro Mosè) dalla missione nell’Arca del governo, riprenderemo il viaggio.

Ormai il tempo che mi è dato volge al tramonto: e il mio desiderio di parlare nella sede del Palazzo, per portare la parola del Silenzio, resta un’illusione. Sono stati vincitori i furbi di giornata, i plagiatori di idee e di progetti, i “politici” insomma… non le persone! Vorrei che fosse presente, nella mia fatica quotidiana, più attenzione alla diversità perché coloro che la pratichino potessero far politica (nuova), in strutture e personale adeguati. Oggi, nella comunità, si impone un bisogno urgente di rinnovare i metodi di fare politica, l’educazione dell’accoglienza politica, la rigenerazione di una proposta utile a tutti e non ai pochi. “Ciò che conta nelle persone, e nelle scuole, è quello che c’è di diverso, non quello che è uguale” (Roland Barth). Aggiungo con forza: “e anche nei partiti, compresa l’Italia dei Valori!

Bambini che non voleranno mai

Febbraio 14th, 2007

I sordi appartengono ad una piccola comunità invisibile, a parte, della grande comunità di maggioranza udente. La quale agisce, soprattutto dall’inizio di questo terzo millennio in cui i sordi hanno avuto il coraggio di scendere in piazza per rivendicare il  diritto di riconoscimento legislativo della lingua dei segni, come propria  lingua (più) efficace per manifestare idee ed emozioni. Effettivamente in molti Paesi  europei la lingua dei segni è riconosciuta da anni; infatti, sin dal 1988, la deputata europea, Lesmas, chiedeva - ai Paesi membri - di riconoscere la peculiarità comunicativa dei sordi espressa nella lingua dei segni del proprio Paese. In Italia gli attriti fra l’ENS e le famiglie locali federate alla FIADDA, la cui presidente è al vertice da quasi quarant’anni, sono stati sempre aspri.  I sordi adulti non sono lasciati in pace nelle loro proposte al governo. La FIADDA, che ammette di tutelare bambini sordi e audiolesi, rivendica un ruolo esclusivo sui figli degli associati che, il 98% di loro, s’incammina lungo una strada che, adulti, avrà per meta l’infelicità. Non sono sufficienti gli incontri dell’associazione ENS, dei protagonisti più tenaci che manifestano scientificamente la loro esperienza, i riscontri negativi di proposte di un «recupero» che non risponde alle reali necessità del bambino sordo perché possa crescere felice. Ci troviamo di fronte a familiari oscurantisti che perseguono l’oralismo a tutti i costi, a politici opportunisti, a docenti di sostegno senza volontà di migliorare la professione, a personale di riabilitazione logopedico: e tutta questa gente esercita pressioni sui genitori perché l’educazione dei propri figli sia programmata esclusivamente per «l’integrazione con i normali». Pensano di donare a questi bambini le ali della natura, invece gli appiccicano ali di cera, che si scioglieranno alle prime difficoltà perché non gli hanno insegnato a gestire la menomazione sensoriale, ad essere se stessi. Considerato che la disabilità della sordità non è visibile, i familiari non si preoccupano più di tanto di ciò che succede al figlio in ambito scolastico, di riabilitazione logopedica e nei processi di sviluppo psicologico e d’apprendimento. Le madri possono sempre far obiezione al parentado, alle amiche, ai vicini di casa che il figlio non ha problemi né di comunicazione né di partecipazione alla didattica comune. Mi è capitato di conoscere una mamma di sordo che, fino a vent’anni, ha nascosto ai parenti, ai conoscenti le difficoltà gravi d’udito del suo ragazzo: e ogni volta adduceva cento scuse sull’incomprensione delle parole o sulla voce rauca. Altera, sicura di sé replicava sempre: «E’ normale! Frequenta  i normali!». Il ragazzo la seguiva a puntino diventando maestro di finzione: recitava tanto bene la sua sordità da renderlo ineccepibile attore! Negli inviti alle festocce scolastiche affermava, quando  era costretto a parlare o a seguire determinati comportamenti verbali, che era raffreddato, o che soffriva di laringite, o di mal di orecchi, o di un principio d’influenza (…). Povero ragazzo, non si avvedeva che era aggregato e non integrato nella cosiddetta comunità normale!

I sordi diventino protagonisti per risolvere i problemi che li riguardano

Febbraio 2nd, 2007

«Il linguaggio fu inventato in modo che le persone potessero nascondersi reciprocamente i propri pensieri.» (Charles-Maurice de Talleyrand). Ma io, Renato Pigliacampo, non l’ho nascosti: li ho ‘vestiti’ con un altro linguaggio. Ho iniziato a volare, con le nuove ali: e oggi continuo a volare.

Spesso ho avuto la sfrontatezza di risolvere - non solo i miei problemi di comunicazione dovuti alla disabilità dell’udito - ma anche quelli dei simili. Infatti la prima regione italiana a legiferare sull’abbattimento delle «barriere di comunicazione» (terminologia proposta alla commissione affari sociali) è stata l’unica regione italiana al plurale, le mie Marche. Da quattro anni avevo lasciato l’insegnamento a Roma per dedicarmi, nel territorio di Recanati-Porto Recanati, alla professione di psicologo. La commissione affari sociali, presieduta da Malgarì Ferretti Amedei (PCI) chiese, a noi rappresentanti delle associazioni, «di suggerire i punti focali per migliorare la nostra qualità di vita», affiché fossero ripresi nella istituenda legge regionale. Dissi di getto «abbattere le barriere». Alcuni consiglieri pensarono che mi fossi confuso con la scontata frase «le barriere architettoniche». No. Dovetti  fornire una rapida lezione su che cosa intendevo. La presidente - poteva intuirlo solo una donna! - capì subito che si trattava di una proposta nuova, che avrebbe caratterizzato la dirigenza della commissione. La legge fu approvata in poche settimane.  Dico della L. R. 18/1982. Molte regioni italiane contattarono l’assessorato ai servizi sociali per averne idea. Di poi fu rivista, migliorata, nella L. R. 18/1996, art. 20, in cui si chiedeva addirittura un  «programma televisivo settimanale alla sede regionale della RAI», o tramite un’emittente privata. Precedemmo la nota legge nazionale per l’integrazione delle persone disabili (l. 104/1992). La legge afferma, nell’articolo 9, che i comuni singoli e associati possono istituire «il servizio di aiuto personale»… e «comprende il servizio di interpretariato per i cittadini non udenti». Per i sordi era una vittoria, tuttavia… La legge riportava un cavillo, predisposto con la solita malizia degli italici lugulei istituzionali. Infatti vi è scritto che «il comune singolo o associato “può″», non vi è riportato, come avrebbe dovuto essere, “deve”. La verità era che, se restavano soldi dopo aver finanziato i progetti più importanti, il sensibile assessore o il sindaco avrebbero istituito il servizio…  Nelle Marche, pressavamo, in particolare nel territorio provinciale di Macerata, gli assessorati (…) e, mugugni o no, disponevano per le nostre esigenze di comunicazione. Nelle assemblee sindacali, politiche, sportive non eravamo più spettatori, bensì persone  partecianti, grazie alla professionalità nella comunicazione dell’interprete di lingua dei segni. Personalmente me ne giovai molto: in politica, nell’aggiornamento professionale, nei convegni, nell’ausilio per comunicare (allora non erano presenti i telefonini)  con persone lontane. L’interrelazione, sebbene tramite l’interprete, con i rappresentanti del potere politico-amministrativo mi dettero l’opportunità di mettere in piazza le rivendicazioni dei sordi, di provocare forti emozioni col mio Silenzio nei dibattiti e convegni.

Il Silenzio aveva l’opportunità di uscire dal carcere.

Ne approfittai.

Iniziai a volare, puntando dritto ampi spazi.

CANTO IL MARE, LA VITA

Gennaio 30th, 2007

lo canto, canto l’onda del mare
in un silenzio sepolcrale:
e mentre le mani creano il segno
per narrare ciò che è stato
nell’idioma di Recanati

(oh terra di poeti e testoni, terra
amica nemica di donne sensuali
d’estate denudarsi in spiaggia adriatica
per diversificare il consueto alcova)

m’avvedo che ormai il destino ha vinto.

Tu onda genesi dal mio corpo
da mani che imprimono sapere
e pensieri di filosofi e poeti,
con te ho vissuto uno spazio di vita
quando avrei potuto dare di più
se avessi accolto la proposta politica,
se mi avessero dato fiducia le istituzioni,
se i pregiudizi non avessero fermato
le porte del Silenzio atroce.
So che vivo ancora (o qualche volta?),
quando ritorno al borgo selvaggio
noto mia madre ciacolare
con le donne di paese che sottovoce
le chiedono del figlio fuggiasco all’Urbe
per riscattare gente silente bussare
alle soglie del potere ipocrita
aggroviglio d’amplesso mercimonio

Š

L’empatia indispensabile nel trattare il sordo

Gennaio 6th, 2007

Nel trattare il “paziente” in psicoterapia, adoperarsi nel counseling psicologico ci vuole intuizione, quel processo empatico che, spesso, è innato nell’ottimo psicologo. Tanti si attribuiscono doti di «psicologi». Possiedono appunto il dono empatico. Come i «poeti». Possono avere forte immaginazione, provare emozioni, ma se non sanno scrivere, nel senso d’incapacità di mettere in versi idee e sentimenti perché ignoranti di «grammatica poetica», la loro creatività finisce nel nulla. Oggi pertanto abbiamo a bizzeffe psicologi domestici, di quartiere, di assemblea politica e/o condominale e così via. Costoro brava gente che, come i poeti semianalfabeti, credono di fare del bene: e nella realtà sono senza studi di base, senza conoscere la psiche e tutto quanto le gira dintorno nei processi neurologici, psicocognitivi e linguistici. Se non possediamo i fondamenti finiamo per confondere il paziente, peggiorando la sua condizione esistenziale.

Io, nella mia giovinezza, ero conscio d’avere potenzialità di capire il prossimo. Badate bene: ho detto «capire il prossimo». Forse il dono di una buona Psiche lo avevo ereditato da mia madre. Ella, a dire delle comari, era «guaritrice». Penetrava nelle ossa di chi soffriva di malattie reumatiche. Ma io non le credevo. Per questo la dileggiavo quando si apprestava - facendoli sdraiare in mezzo all’ampia cucina -  a curare i malati di mal di schiena. Se mia madre avesse studiato medicina sarebbe stata, senza dubbio, un’ottima ortopedica.

Chiaro che nei miei studi forsennati di una giovinezza trascorsa a Padova, a Roma e nelle mie Marche avevo focalizzato dabbene dapprima la pedagogia, poi la sociologia e infine la psicologia. Perché pensavo che le doti dovevo alimentarle con lo studio e la ricerca. La scienza, come ho già affermato nell’Itinerario di Silenzio, mi faceva penare nel gruppo dei colleghi udenti quando ero dipendente dell’ASL; mi trovavo meglio a trattare, sebbene la lingua dei segni fosse differente, con gli psicologi sordi della «Gallaudet University» di Washington. Essi erano allertati nella diversità di lingua, di cultura e soprattutto nella specificità d’essere sordo, io, come loro. Realtà di difficile comprensione per i colleghi udenti, che mi alimentavano di parole «labioleggi», «sei una risorsa», «dopo approfondiamo», «considera che… ».

Comunicare è fondamentale per lo psicologo. Uno psicologo che non riesce a entrare in relazione empatica col suo paziente è nullo. Mi sono trovato molto bene con gli psicologi sordi: e con i miei pazienti ugualmente sordi o audiolesi. Ma trattando di comunicazione dobbiamo specificare di quale si tratta. Uno psicologo, per esempio, deve saper leggere il corpo. Un sordo psicologo deve leggere dapprima l’apparato corporeo del proprio paziente, poi labioleggerlo (se si tratta d’udente) e/o leggerlo nelle mani che segnano i tormenti dell’anima (se si tratta di sordo). Chiaro che bisogna partecipare alle tristezze della gente perché esorcizzi il “male oscuro” del nostro tempo. Come è indicata la depressione oggi. Eppure  quasi nessuno pensa ai sordi depressi! La mia esperienza professionale mi ha allarmato sulla carenza di psicologi idonei ad esercitare psicoterapia con pazienti sordi e/o audiolesi. Vogliamo denunciarlo? Ci vergogniamo ad ammettere l’arretratezza del nostro Paese in questo settore? Non possiamo lasciare che i sordi restino sull’abisso! Il pericolo è che molti possano precipitare nel precipizio: e il peggio è che i «normali» o non lo sanno o non se ne avvedono.

E io che lo so da decenni  oso (ancora) gridarlo al mondo dei «sordi».

La sordità imbarazza l’udente

Dicembre 29th, 2006

Quando un sordo si trova a parlare con un udente, che non conosce le modalità di comunicazione con chi ha problemi di udito, finisce sempre per spazientirlo, oppure quello sfocia nell’ironia. Azione che genera inquietudine e disagio psicologico. La sordità perciò: o fa innervosire o fa ridere! Spesso mi è capitato che qualcuno mi chiedesse un’informazione di una via, dell’orario di partenza o di arrivo di un bus o altro. Restato io dapprima confuso, appeso alle prime parole labiolette, per poi entrambi guardarci straniati, sino a quando il richiedente sbotta con l’immancabile domanda: «Lei è straniero?».

La sordità è imbarazzante sia per chi è costretto a conviverci sia per coloro che la subiscono. Perché è invisibile. Perciò è perdente, sempre sconfitta rispetto le altre “evidenti” disabilità. La sordità deve essere spiegata. Ho detto «spiegata». Perché è maestra per affrontare molte questioni di vita. Poi è cultura. Se oggi la maggioranza della gente è ignorante sulla sordità - e ciò che da essa proviene - la responsabilità è da attribuire anche ai noi sordi. Non siamo abbastanza decisi e preparati a «tenere lezioni sul Silenzio».

Nella mia professione di psicologo, in una struttura pubblica, per alcuni anni ho sofferto l’emarginazione del dialogo scientifico-professionale con i colleghi nelle riunioni settimanali di programmazione del lavoro nel territorio o portare a soluzione un caso. Mi accorgevo che la mia cultura e preparazione professionale. lo studio dell’evento considerato, l’intuizione di risolverlo andava spesso sperso perché intervenivo nel momento sbagliato, non riuscivo ad «entrare nel cuore del problema» per analizzare (anche) i pareri dei colleghi. La riunione dell’équiepe multidisciplinare si rivelava per me un tormento (…); anzi, talvolta finivo fuori tema così da essere ripreso da un collega «questo che c’entra col problema esaminato?».