Sulla spiaggia adriatica in cerca di Dio

Maggio 22nd, 2007

Siamo intimi in silenzio nelle parole segnate:
immote bandiere sull’acqua
né sussurro di vento impaccia
né colloquio con la natura
ci è caro; noi due delusi a segnare;

e s’ allontana quel che non abbiamo avuto:
il ramo fiorito di mia stirpe
luce che cammina verso il Nuovo.

Le barche vanno a pelo d’acqua
raccontando storie di ieri e oggi:
di moldave croate donne dell’est
che han svenduto anima e corpo.

Lontano qualcuna piange, o canta
per comunicare quel che resta, il vuoto.
Con te mi sono accostato alla spiaggia
per riprendere il colloquio col mare:

ancora una volta sommerge il Silenzio:
e mentre a testa china sulla rena cammino
un vecchio pescatore accenna
che sono fesso a cavare coi gesti
seduzione da donne forestiere.
«Prendile di dietro» dice
«a colpo sicuro» ridacchia.
Ho rinunciato a rincorrere i sogni.

L’ombra scende sul mare
come se stanotte
dovesse sposare l’Ignoto
pure io vestirmi di tenebre.

Silenzio tormenta ferisce.

Pronunci lentamente «amore»:
che le mie orecchie s’aprano sicure
e mosse da fonemi intonati
risponda la lingua capace.

Ondivago è sulla spiaggia il mare.
Gocciolano stille che raccolgo in mano.
Oh mio Dio perché non mi doni Pace?
Perché Tu con me non sei goccia?

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Renato Pigliacampo, inedita, Porto Potenza Picena, primavera 2007.

10

Maggio 3rd, 2007

I miei giorni accompagnano i tuoi sorrisi
le lacrime l’abbandono
i segni i sussurri.
Le notti cancellano i colloqui
per l’impossibile labiolettura e
navigano col pensiero ai porti
delle mie peripezie e
accanto a mia madre mi ritrovo
al cèrbero direttore di collegio
ai ragazzi sordomuti di Roma
a questa contrada sul mare
che scioglie il pianto di poeta
di frontiera.

Di me non sanno (perché non vivono)
questo giogo che mi porto col sorriso
questa voglia di vita che mi seduce
e condanna.
Non consumare per me parole.
Mi basta sperare da solo.
Però è diffcile credere
in chi procede da cent’anni
con gli orecchi otturati.

da Renato Pigliacampo, Radice dei giorni, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986.

Le etichette

Maggio 3rd, 2007

L’anno internazionale delle persone handicappate può essere considerato l’anno della presa di coscienza dei disabili dei propri problemi: processo che diverrà attivo e insistente in chi ha buona istruzione di base per svolgere azione di critica verso la società e le istituzioni. Purtuttavia i protagonisti che fanno udire la propria voce sono pochi. Le rivendicazioni dei disabili sono, come sempre è avvenuto, delegate ai «normali». I sordi potrebbero essere sostenuti, nei primi anni d’inserimento nelle scuole pubbliche, dagli educatori e docenti che hanno operato con loro nelle scuole specializzate statali e no. Ma costoro - molti dei quali trasferiti  nelle pubbliche scuole - non si spendono più di tanto per i nuovi programmi scolastici e riabilitativi. Gli «enti inutili» che sino ad allora avevano ghettizzato gli handicappati - a dire delle forze politiche di sinistra - nelle “scuole speciali”  sono spogliati delle funzioni di assistenza e di ‘guida’ nei confronti dei protetti. Spezzata l’appartenenza alla «categoria speciale» restava l’individuo col suo handicap; infatti - senza distinzione - tutti venivano chiamati «portatori di handicap». La nuova etichetta era stata attaccata, non all’entrata delle istituzioni speciali, come era evidente ieri all’ingresso dei portoni, ma sulla porta dell’aula frequentata con i coetanei normodotati. I pochi docenti trasferiti nelle scuole pubbliche dove sono finiti? Per lo più tacciono. Non hanno coraggio né capacità d’iniziativa di intervenire per formare i colleghi e dar loro i fondamenti metodologici e didattici necessari agli studenti speciali. Ecco intanto entrare nella scuola nuovi professionisti: psicologi, pedagogisti, terapisti d’ogni tipo. Costoro sono bravissimi (Cfr. Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando editore, Roma 2005) nello stendere relazioni sul «caso»; per lo più è farina del sacco di un collega collaboratore del periodico professionale o dell’ordine che, puntuale, si porta nella borsa di servizio. Tutto è ammantato di patina scientica e professioanle, con  una sortita, scritta o parlata, di tanto in tanto del nome di un luminare, di cui annunciano d’esserne stati allievi all’Università di***. Così devono agire, muoversi ed essi stessi convincersi d’essere sopra le parti. Tutto deve procedere con metodo: ciascun portatore di handicap, indicazione ormai canonica, ha la propria cartella personale dove è annotato tutto proprio tutto. Se sorgono perplessità sui termini adottati o frasi nel contesto di un periodare liceale, si chiede indicazioni all’esperto della rivista dell’associazione professionale o dell’ordine. Nella riunione dell’équipe settimanale ciascuno potrà fare passerella o bella figura leggendo, agl’intervenuti, la propria prosa scientifica (…). Il coordinatore del gruppo sintetizzerà il tutto con una proposta di lavoro per la settimana prossima a cui, tutti, si associano.

L’anno 1981: inizio di coscienzazione

Aprile 29th, 2007

L’anno 1981 è «l’anno internazionale delle persone handicappate». Non c’è città o paese in ogni dove dell’Italia dove non si celebri «l’handicappato» in ogni forma: le esperienze di vita nei vari settori di lavoro, di studio eccetera, la sessualità, l’approccio con le persone cosiddette normali, l’ambiente familiare, la scuola e altro ancora. Il termine «handicappato» è utilizzato in modo generico, approssimativo. Ma per ora fa comodo a tanti utilizzare questa parola che non chiarisce nulla. I convegni si susseguono l’un l’altro nelle scuole di ogni ordine grado. Presidi, in pompa magna, salgono in cattedra e davanti a colleghi, docenti e familiari dei «portatori di handicap» tengono interminabili sermoni terminanti immancabilmente con frasi ad effetto: «nella mia scuola l’integrazione è pienamente considerata, matura», «gli handicappati sono una risorsa per la nostra scuola», «nessuno è handicappato perché siamo tutti handcappati», «la presenza degli handicappati nella scuola è fondamentale per diventare normali». Avanti così: e chi più ne aveva più ne metteva. Siamo all’alba dell’apertura delle porte della scuola, della stessa società:  e tanti operatori sociosanitari e scolastici compiono svavarioni che saranno fatali in fututo per la reale integrazione scolastica e sociale. Quasi nessuno mette un po’ d’ordine nelle parole utilizzate. Eppure gli “esperti” dovrebbero sapere che il termine «handicap» è inglese, nulla ha a che fare con la disabilità fisica, sensoriale e psichica. Era all’origine utilizzato nella corsa dei levrieri e dei cavalli campioni. Il fatto d’essere invincibili quando partivano insieme agli altri aveva indotto gli organizzatori a farli partire indietro di cinque-dieci metri, vale a dire in handicap per rendere la vittoria incerta sino al termine della gara. Applicato al mondo dei disabili «handicap» significa dunque svantaggio. Ma se siamo così diligenti e preventivi formando persone professionalmente competenti e capaci di affrontare lo svantaggio, predisponendo strutture e strumentazioni adeguate l’handicap è annullato, resterà solo la disabilità. I sordi, per fare un esempio, possono partecipare ad un dibattito ed essere attivi se forniamo loro un interprete, il quale potrà essere labiale o di lingua dei segni, annullando l’handicap in quel determinato ambiente, sebbene resterà la disabilità dell’ascolto attraverso il canale acustico-verbale. Abbiamo scritto molto su questi argomenti (v. R. Pigliacampo, Lo Stato e la diversità, Armando editore, Roma 1983; Handicappati e pregiudizi: assistenza-lavoro-sessualità, Armando, 1994; Lettera a una Ministro (e dintorni), Armando, 2006; Lettera a una logopedista, Edizioni Kappa, Roma, 1996) denunciando che, in un paese democratico e civile, l’handicap non dovrebbe esistere. Pertanto affermare o dire «scuola aperta all’handicappato», «sessualità dell’handicappato», «psicologia dell’handicappto» e quanto altro è fuorviante. Occorre avere la preparazione di affrontare il problema della disabilità per eliminare la presenza dello svantaggio (l’handicap).

Il fervore dell’anno internazionale… dell’handicappato del 1981 è importante perché conduce il potere politico a rivedere le scelte compiute sino ad allora, per lo più segreganti, “nascoste” altrove per salvaguardare la buona fama di famiglie, la dignità di qualcuno, le decisioni di pochi o della stessa comunità. Ecco le note istituzioni speciali degli «istituti dei sordomuti», degli «istituti dei ciechi», degli «istituti dei matti» e via di questo passo. E’ presente un centro per tutti (sic). Le strutture territoriali appena nate (le Aziende sociosanitarie) con la legge 833/1978 devono confrontarsi a livello territoriale con i nuovi utenti. Nella fretta di recuperare il tempo perso «per il bene degli handicappati», come ammetteranno gli amministratori degli enti locali e i professionisti della riabilitazione, si scorda di studiare e valutare la forma della disabilità, talvolta inscindibile dai processi di apprendimento e dello sviluppo del linguaggio. Per esempio come è caratteristica nei sordi. Nel territorio di competenza dell’ASL il fervore di riabilitare, istruire e normalizzare dà alla testa a tanti. Guai a quegli assessori o sindaci che osano porre un minimo di verifica scientifica alle proposte di mamme e novelli apostoli di sanizzazione. Le logopediste bandiscono ai genitori che i figli sordi frequentino altri sordi perché «altrimenti imparano i brutti gesti». Propongono per modello l’udente, vale a dire il «normale». I sordi «devono parlare» e possono farlo solo se frequenteranno il gruppo udente. Se bazzicano l’handicappato resteranno handicappati. Affermazioni assodate e confermate dagli «esperti» che gironzolano, come corvi, dintorno alla preda. Il loro scopo è proporre, partendo dagli “handicappati”, nuove prospettive professionali, lavorative (…). La magior parte degli operatori  però scorda la persona per puntare ad una mera normalità (tutta da dimostrare) dando l’ostracismo alle esigenze  specifiche, dovute al buonsenso.

La tua voce

Aprile 24th, 2007

Sei passata nel respiro del vento
volo desolato sul mio mare
di te non conoscevo rotte
per queste coste antiche sovrane
(O Speranza che nel tuo nome invoco
d’aver vissuto nei silenzi un amore:
una breve stagione
un impeto di sensi
di parole scritte sulla sabbia)
Tutto è andato!

Guardo le nuvole sparire
oltre il Cònero, simbolo
di queste Marche tenaci sofferte
di poeti rapiti nei pensieri,
sul mare azzurro disteso
l’onda rievoca il tuo nome
che mai saprò nel tono di voce

da Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, Pavia 2007.

Legge 23 dicembre 1978, n. 833

Aprile 20th, 2007

All’inizio del 1982 in Italia iniziarono ad operare le Aziende socio-sanitarie,  con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 «Istituzione del servizio sanitario nazionale». Non era stato sufficiente dare il via alle nuove strutture, gran parte della gente addirittura si confonde sulle iniziali del nuovo organismo. Perché non tutte si chiamano allo stesso modo. C’erano quelle denominate aziende socio-sanitarie, oppure le unità  dei servizi socio-sanitari locali, e così via. Ogni regione italiana le aveva ‘battezzate’ secondo la propria filosofia. Per quanto riguarda i bambini con problemi sensoriali, per esempio i bambini ciechi o sordi, i comuni di residenza delegavano la riabilitazione e l’intervento proprio all’azienda sanitaria locale, che si estendeva (o si estende) per più comuni, o per una vasta zona di città. E’ il periodo in cui gli operatori sociosanitari (medici scolastici, assistenti sociali, pedagogisti, primi psicologi, ecc.) presenti nei comuni ‘passano’ all’ASL. Danno origine alle famose «equipe psicopedagogiche». Anche questa denominazione è variabile. Perché è indicata secondo il ghiribizzo del dirigente sanitario o il presidente dell’ASL. In molte regioni sono chiamate «équipe di riabilitazione», «équipe neuropsicopedagogiche», «équipe socioriabilitative di base» e altre nominazioni. Chi agisce in seno all’équipe per il bambino sordo? Abbiamo visto che la logopedista spadroneggia sia a scuola che nell’istituendo centro di riabilitazione dell’ASL.Taluni comuni avevano convenzioni con specialisti e altri operatori che, la nuova azienda, volendo o no, confermerà. Questi “esperti” avevano in comune soltanto la valutazione di scorgere nel bambino solo la menomazione sensoriale. Dunque la disabilità. Pertanto la proposizione era scontata: disabilità = handicap, svantaggio; abolire la disabilità, curarla, annullarla o dominarla con interventi radicali (chirurgici) o supporti proteseici facevano sì che il soggetto divenisse «normale» o «integrato con i normali». Per decenni nelle aziende socio-sanitarie locali équipe multidisciplinari promuovono la cultura del coattismo riabilitativo: e non solo per i sordi, i quali «devono imparare a parlare». I vecchi pedagogisti sono soppiantati dagli psicologi, che fanno comunella con i neuropsichiatri infantili. Ricordiamo che in Italia le prime lauree in psicologia saranno consegnate a metà degli anni ‘70. I pedagogisti, che operavano nelle équipe prima dell’apparire degli psicologi, furono lo stesso accolti honoris causa nell’albo professionale degli psicologi ex lege, ma sempre malvisti dagli psicologi con titolo academico specifico. I conflitti per l’integrazione degli «handicappati» sono quotidiani nelle équipe perché il bambino - con problemi d’udito - è valutato su presupposti differenti dai componenti dell’équipe. Il fervore di iniziative  nel territorio dell’azienda sociosanitaria è positivo per taluni disabili. Tutto ciò era stato preceduto da un evento molto importante: l’anno internazionale degli handicappati del 1981.

Dio e le parole

Aprile 9th, 2007

Non voglio parlare con nessuno
né coi vivi né coi morti.
Voglio interloquire con l’Essere.
Unico a capire
questo linguaggio che mi conduco
sui monti Sibillini
nei paesi delle Marche
violate da ruspe e gru

Dio ha generato i poeti
col suo linguaggio.
Perché temeva di star solo:
compì il miracolo del Dialogo
tra Sé e il poeta.
E Dio, per non avere uno sciocco a fianco,
gli permise l’accesso al segreto delle parole

(Il poeta dialoga con Dio:
ne conosce il mistero
d’inventar morfemi
con cui genera e illude il mondo)

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da Renato Pigliacampo, Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena, 1999.

I sordi iniziano a frequentare la scuola residenziale

Aprile 8th, 2007

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso in Italia è stata emanata la riforma socio-sanitaria che metteva fine alle «mutue» e agli innumerevoli «enti inutili». Così erano indicati gli enti che gestivano l’assistenza degli handicappati, secondo la tipologia della disabilità. Il Sistema Sanitario Nazionale del 1978 delegava dapprima alle regioni, successivamente agli enti locali che -  faticosamente - creavano strutture adeguate per la riabilitazione secondo la specifica disabilità. L’anno precedente, nel 1977, con la legge 517 le scuole territoriali aprivano le proprie classi agli handicappati. Gli «istituti dei sordomuti», gestiti per lo più da congregazioni religiose, dall’ENS e dallo Stato (solo tre a livello nazionale) si svuotavano lentamente (…). I sordi iniziavano a frequentare le classi comuni, sebbene i docenti capaci d’insegnar loro il far di conto, qualche frase scritta e l’avvio all’apprendimento ce ne erano pochi. Costoro, incapaci confessi davanti all’autorità scolastica e sociosanitaria, lasciavano che dell’allunno se ne occupasse la logopedista. Costei, in quegli anni, si presentava nella scuola territoriale competente del comune in cui prestava servizio, si appropriava dell’alunno portandoselo in un’apposita aula, strutturata per la bisogna, e iniziava a far di tutto: logopedia e programmazione didattica. Il suo procedimento era esclusivamente oralista. Il metodo orale del 1880 di Mons. Giulio Tarra era vangelo, alzandolo ogni volta che qualcuno la contraddiva. Ma ce ne erano pochissimi di insegnanti che osavano ostacolarne le proposte di «recupero alla parola» (v. Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando editore, Roma 2005 segreteria@armando.it). Aveva l’egemonia dell’alunno. La buona fede era supportata da programmi di studi nelle più variegate scuole della penisola dove, zelanti otorino e audiologi (questi ultimi stavano proponendosi per la nuova specializzazione), le addottrinavano su programmi per «l’insegnamento del linguaggio ai sordi». All’inizio il titolo che veniva loro rilasciato era  indefinito, per esempio aveva denominazioni diverse: «tecnico di logopedia», «ortofonista», «tecnico di riabilitazione fonica» e così via. Solo nei decenni successivi si arriverà ad un ordinamento didattico comune, sino all’istituzione dei corsi universitari di oggi. Dunque la presenza del sordo nella scuola territoriale non era prettamente apprenditivo-didattico, ma logopedico-riabilitativo. Là dove era necessario un docente specializzato, per attivare una didattica appropriata, si forniva un “riabilitatore” per il semplice fatto che le mamme s’erano coalizzate con la fisima di volere per i figli l’acquisizione della lingua verbale, sollecitate da un’agguerita associazione di genitori di sordi che puntava contro i ghetti in cui lo Stato aveva rinchiuso «i poveri sordomuti». Le “logopediste” di allora erano assunte per chiamata diretta dai comuni. Il loro caposervizio era, di solito, il responsabile della sanità dell’assessorato dei servizi sociosanitari e scolastici. Molte di esse passavano l’intera giornata seguendo uno o due alunni del territorio comunale o zona. Ogni mese le veniva consentito di fruire il massimo delle ore di straordinario (spesso con proroga) dei contratti sindacali (….). Ognuna - in buona fede, si intende - aveva orrore che il proprio utente contattasse il simile e «imparasse i gesti». I bambini sordi crescevano isolati: uno qua e uno là. Mai potevano incontrarsi, vedersi in volto, confrontarsi. Ciascuna logopedista era gelosa di un modesto successo sia didattico sia logopedico. I docenti erano derisi quando osavano rivolgersi ai ragazzi sordi con qualche gesto convenzionale. «Poveretti, sanno solo gesticolare!». Col tempo, anche gli insegnanti che avevano buona volontà di comprendere la fenomenologia e adeguarsi alle esigenze dello scolaro, finivano per rinunciare e tirarsi da parte per lasciare completo spazio alla nuova Figura professionale.

Il problema è che lo Stato non si è mai adoperato per preparare il nuovo personale né di docenza né di riabilitazione per accogliere gli studenti sordi e/o audiolesi nelle classi comuni. Gli «enti disciolti», come l’ENS, l’UIC, o altre associazioni di categoria che avevano gestito, per decenni, scuole d’ogni ordine e grado, erano messi dapparte, bollati come promotori di ghetti, in cui l’handicappto - come veniva indicato - non poteva che restare in svantaggio, emarginato dal consorzio della società normale. La verità era esplicita solo ad alcuni: dietro la battaglia di deistitutizionalizzare la frequenza delle  «scuole speciali» dei sordi - e non solo loro! - si giocava un progetto politico della sinistra che voleva togliere risorse e privilegi agli enti ecclesiastici o agli enti a carattere associativo nei quali operavano dirigenti che non erano certo disabili, per lo più accondiscendenti alle pressioni politiche del ministro o capo di governo del momento: clientelismo e nepotismo che si ripercuotevano sulla qualità dell’insegnamento e della riabilitazione.

I familiari respingono il figlio sordo

Aprile 8th, 2007
Le ricerche sui genitori udenti con figli sordi hanno messo in evidenza l’impossibilità d’accettare la condizione della menomazione uditiva. Il primo ostacolo che spaventa la madre, il padre e qualsiasi altro familiare è la Barriera di comunicazione. Considerata molto peggio delle “barriere architettoniche” che inquietano i genitori dei disabili motori. Perché costoro sanno che cosa fare, mentre i genitori dei sordi barcolano nell’ignoranza. La mamma è frastornata, confusa dalla traduttrice  vista in televisione che, con maestrìa, interpreta in lingua dei segni le notizie lette dal telecronista. «Potrei apprendere qualche segno» riflette tra sé e sé. Tuttavia col passare il tempo dalla diagnosi della sordità non decide, rinvia sine die. La logopedista, con la quale si è confidata, la scoraggia. «Vuole scherzare, signora?! Se si mette a gesticolare suo figlio non imparerà più a parlare! Solo la lingua verbale gli permetterà l’accesso alla normalità, integrarsi.» A poco a poco, invece di intraprendere la modalità di una comunicazione corretta fondata sul processo visuomanuale per comunicare col bambino, finisce per respingere tutto ciò che è espresso con le mani, viste girellare come ali di farfalla impazzite attorno al corpo del figlio (…). Perciò è sollecita a cambiare canale televisivo quando appare, accanto al telecronista sulla finestrella  del video, l’interprete. «Meglio che il bambino non la veda, potrebbe sorgergli lo sghiribizzo di imitarla» dice al marito. In cuor suo pensa che se il piccolo apprendesse quell’inconsueta modalità di comunicazione sarebbe confessare la sconfitta dell’acquisizione del linguaggio dei normali (!) ai parenti, agli amici e conoscenti, dire chiaro che il figlio è «sordo», «handicappato». Nell’altalena di rinvio sorge il dubbio se i segni, «i gesti» come li definisce, veicolano il pensiero e le emozioni.      

E’ difficile convincere una madre udente ad imparare la LIS perché, per farlo, dovrebbe possedere estese nozioni psicolinguistiche e conoscenze dei processi psicocognitivi. Che raramente ha. Qualcuna di loro si avvicina ai corsi di lingua dei segni dopo aver avuto informazioni da un insegnante di sostegno che ha sentito dire ad un convegno che «la lingua dei segni è importante per i bambini sordi (…)». Nel frattempo impone al figlio le proprie labbra per la labiolettura, pretende che il padre, i nonni e i parenti si adeguino al suo modo di parlare al bambino. Il piccolo - proprio perché la cognitività è sollecitata dall’input percettivo visivo - inventa gesti noti solo a lui o ai pochissimi che hanno la briga di seguirlo nella contorta comunicazione. La madre attende che la logopedista compia l’effeta, l’apriti evangelico. Oh, la questione è un’altra! La sordità, la signora non l’ha capito, non si doma. Perché sia vinta va raggirata con astuzia e intelligenza. Il bambino sordo chiede alla madre udente di imparare a comunicare con lui innanzitutto; poi deciderà lui a scegliere la modalità più efficace nell’interrelazione con gli altri, secondo l’interlocutore che avrà di fronte.

Solitudine e speranza

Marzo 24th, 2007

Ho voglia di cantare, di liberarmi
d’una solitudine ch’è solo in me:
mi crocifigge da tempo;

la vedo nel volo del gabbiano,
nello sfuggente gioco del bardascio,
nel greve cammino dell’anziano,
nella mano del povero che si tende,
nel celebrante della chiesa vuota,
nella madre che percorre il camposanto
in cerca di familiare avello

(Solitudine sarai mia sposa stasera,
pur sapendo che pace non arrivera’
dall’altra sponda martoriata violata)

Stamattina era primavera
sul volto radioso d’un fanciullo
che mirava il sole

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da: L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, 2006.