Sarai sempre ricordato

Giugno 29th, 2015

Abbiamo chiecchierato tanto, mi hai detto tante volte che insieme dovevamo fare qualcosa per un cambiamento per tutelare le persone sorde, per dare forza e maggior rispetto a chi sceglie la parola il segno il testo… non importa come, era importante comunicare, capirsi unirci…

Sei stato un pioniere, un coraggioso che ha sfidato e vinto la sua guerra, riconoscendosi e affermandosi nella propria identità sorda, ma osando dove in molti si ostinano a rifiutare la tecnologia ed il progresso, hai raggiunto livelli socio culturali che hanno fatto la differenza e valorizzato le capacità dei sordi.
Tu passerai alla storia e sarai sempre ricordato come poeta e scrittore che dal silenzio ha scritto versi suoni e parole…

Riposa in pace Renato, mi spiace tanto non aver avuto un altra occasione per poterti incontrare.

Enzo De Stefano

Caro Renato

Giugno 29th, 2015

Caro Renato, ci hai lasciati, ma grazie a Dio tre settimane fa sono venuto a trovarti. Dormivi. Ti ho preso la mano, ti ho accarezzato la fronte, ti guardavo quando aprivi le palpebre.
Ora ti trovi in cielo, dove potrai sentire il canto degli uccelli e tutti i suoni che in terra non hai potuto sentire.
Ci siamo conosciuti 47 anni fa all’Istituto Magarotto di Padova. Io appena entrato, tu che l’anno dopo ti saresti diplomato. Ricordo nitidamente il nostro incontro: io seduto a tavola, tu, assistente, facevi il giro del refettorio per conoscere i nuovi arrivati. Ti accovacciasti al mio tavolo e cominciavi a fare domande come li fa un professore.
Come ti chiami? Antonio. Da dove vieni? Modugno, provincia di Bari. Che corso frequenterai? Ragioneria. E sotto a mettermi alla prova con i numeri. 6X4=24 8X9=72.
Dopo diverse risposte mi chiedesti quanti anni avevo. 14. E tu: quanto fa 14 + 6? 20. Bravo, sono i miei anni!
Ciao Renato, ti ricorderò nei tuoi libri che ho nella mia biblioteca.

Antonio Sgaramella

Ci ha lasciati

Giugno 29th, 2015

Ci ha lasciati oggi il prof. Renato Pigliacampo, che oltre ad essere un Poeta, un grande amante e promotore della Cultura, ha sempre difeso con forza le istanze dell’universo audioleso.
Gli piaceva stare con i giovani e il suo animo combattivo lo portava sempre a darsi da fare con tutto se stesso, facendo del suo deficit non un problema ma un punto di forza.
Sono sicuro che continuerà a parlarci con quei “ghirigori di mani sognanti” anche dal posto in cui si trova.

Lorenzo Spurio

Sono chi scrisse questi versi

Maggio 30th, 2015

Ho il piacere di comunicare che abbiamo deciso, familiari e amici, di continuare ad organizzare il Premio di poesia “Città di Portorecanati”, che babbo organizzava ogni anno da quasi trent’anni.
La prossima cerimonia si terrà domenica 6 settembre 2016, presso la sala del Castello Svevo. Sarà un’occasione anche per ricordare la sua passione per la poesia.
(Marco Pigliacampo)

SONO CHI SCRISSE QUESTI VERSI

Io sto solo nel mio silenzio
a guardare un raggio di luna:
e di notte, accanto al mio mare,
fantasmi di ieri danzano
in cerca di voce dispersa.
La vita non è né giorno né notte.
Sei tu nel volo del pensiero.
Sei tu nel sorriso che dài.
Sei tu che vai per il tempo
che ti resta per parlare, scrivere.
Di me non dimenticare.
Sono chi scrisse questi versi.

Renato Pigliacampo

Messaggio di voce

Maggio 15th, 2015

MESSAGGIO DI VOCE

Nella gola dove ignota mia voce
induce corde vocali al tono e
pur sempre mi lega al visuale.
Ricordo parola codice d’uomo.
Oggi sul corpo imperano segni e
nel gioco fonetico tu presente.
So quanto fremente in me schiudi
ali a nuova vita: e quasi mi nego
perché non pregni area d’ascolto e
vagoli col poeta al Porto di mare
riascoltando l’idioma madre
suoni e vocìi a valle di Recanati e
rallegrarmi ancora a vita.
Resterò con l’immota ugola
che non più articola fonema e
l’afasico pensiero si spegne
mentre, a segni, imito l’onda del mare
che sfiora i miei piedi e dice:
«Il tuo parlare mi preme e prende.»

.
(È la poesia con cui babbo ha partecipato e vinto una menzione al Premio Città di Fermo.
La premiazione si tiene domenica 31 maggio a Fermo.
Marco Pigliacampo)

UNIPATIA

Febbraio 19th, 2015

 

UNIPATIA

   di Renato  Pigliacampo

dal Dizionario della disabilità, dell’handicap e della  riabilitazione, Armando Roma 2009 (2^ ed.)

 

 

Secondo le  indicazioni dell’analisi  compiuta di Edih Stein l’empatia è divisa in tre gradi: il primo grado consiste nella «lettura» di un’espressione emotiva sul volto di qualcuno; il secondo grado quando l’attenzione è intenzionalmente diretta sullo stato d’animo dell’altro; infine abbiamo  il terzo grado quando pone attenzione al vissuto dell’altro. I tre gradi dell’empatia ci permettono di evitare l’errore di confondere l’empatia con l’unipatia che,  secondo  la teoria di Lipps, consiste nel fatto che un Io si fonde con l’altro. Tuttavia Edith Stein fa presente che la teoria di Lipps dimentica l’interazione che ciascuno di noi ha col corpo dell’altro (azione psicofisica). In questa interazione però dobbiamo ricordare che l’Io non si unisce a un altro Io ma rimane sempre se stesso. Nell’unipatia l’Io scopre nell’altro lo stesso sentimento che  egli sperimenta, da qui si origina l’Io che procede verso il Tu per un Noi. Ed è proprio questa forma di unità superiore che manca al co-sentire e distingue l’unipatia  dall’empatia, in senso stretto. Edith Stein afferma che proprio l’apertura empatica verso l’altro ci permette di individuare l’errore originario giacché, un profondo atto empatico, ci sospinge alla comprensione che, prima, forse per un’azione erronea di proiezione sull’altro di attese o preconcetti, ci era sfuggito; infine l’empatia non va confusa col contagio emotivo. A volte il soggetto che empatizza può anche non rispondere al messaggio emotivo che riceve ma non vuol dire che non comprende lo stato emotivo comunicato dall’altro.

Vedi:

Angela Ales Bello, Edith Stein. La passione per la verità, Edizioni Messaggero, Padova 1998.

Laura Boella, Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Cortina, Milano 200.

PER ISTRUIRE I SORDI CI VUOLE SERIETA’!

Agosto 31st, 2014

Domenica 31 Agosto

Mi sono stufato di predicare al vento perché i sordi abbiano una buona istruzione. Ci sono gruppi che lavorano nel settore «sordità» che si guerreggiano l’un l’altro per sopraffarsi a vicenda e avere il campo libero per dimostrare d’essere «i migliori».

Gli insegnanti, in questo scontro, si trovano in svantaggio di conoscenze: non possono contrapporre approfonditi studi di psicologia, di neurologia e/o di linguistica eccetera. Rimangono semplicemente insegnanti che, ahimè, si considerano limitati nella complessità d’istruire e educare i sordi!

Lo Stato è assente in questo settore: e lo è perché, da decenni, delega il compito a gente formata alla carlona e non selezionata per titoli accademici o esami. Il MIUR non impone punti fermi sul programma di formazione, sulla disciplina che dovrà essere insegnata dal docente allo studente sordo o ipoacusico (in particolare nella secondaria di 2°), non c’è il supporto di conoscenze specifiche necessarie (e fondamentali!).

Oggi assistiamo ad una formazione aleatoria, talvolta vuota di contenuti didattici che, alla fine, accontenta solo gli assistenti o i tuttofare che traggono, dal «pressappoco» in cui sono lasciati i docenti (nel nostro caso dei sordi e/o ipoacusici), un tornaconto.

Renato Pigliacampo

Per lo Stato italiano i sordi sono un peso: con la professionalità dei docenti diventino una risorsa

Agosto 26th, 2014

lunedì 25 agosto 2014

  

  

La verità è che dall’accettazione dei sordi, dal 1977 in poi, nella scuola comune dobbiamo affermare, con amarezza, che l’inclusione non è avvenuta (forse solo nella scuola dell’Infanzia) perché giammai il ministro/a dell’istruzione si è seriamente impegnato/a per far sì che i docenti raggiungessero la competenza didattica e linguistica per fornire «il pasto culturale» (cfr R. Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2009) nei processi apprenditivi agli alunni e studenti sordi.
È in questa inaudita assenza del MIUR verso il sordo o l’ipoacusico (o chiamatelo come vi pare) a frenare ogni progresso culturale e professionale dei sordi.Le grandi associazioni nazionali, alle quali lo Stato ha delegato dei compiti (cfr legge 30 ottobre 2013, n. 125) hanno operatori perlopiù non professionali per focalizzare tematiche e problematiche dell’istruzione; ecco allora che – invece di formare ottimi docenti specializzati – si decide di passare la patata bollente agli Enti Locali, che forniscono un cosiddetto «assistente tuttofare», che sarebbe, secondo i casi, di comunicazione o per altre emergenze, anche igieniche.  

Tutto ciò induce a dubitare che lo Stato italiano non «sopporta» i disabili, in primis i sordi.

Renato Pigliacampo

CINESEMICA E FONEMICA di Renato Pigliacampo (Cap. I da Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2009)

Maggio 24th, 2014

lundiedì 19 maggio 2014

 

Sappiamo che «la lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee» (F. de Saussure). Le idee, perché siano comunicate nella forma più nota e diffusa, fanno riscontro ai movimenti dell’apparato fonatorio e respiratorio permettendo così la presenza del segno vocale, per mezzo del quale le idee si vestono per andarsene a passeggio nel mondo (…). All’inizio c’è l’impegno dei polmoni che, si può dire, promuovono la materia prima, l’aria, che fornisce la spinta all’azione fonica; poi ci sono le corte vocali; la cavità laringofaringea; la lingua che esercita un’intensa attività d’estensione per tutto il suo volume e, infine, l’apparato labiobuccale e dentale. Tutti questi apparati sono come un’orchestra di diversi strumenti governati dall’udito, che potrebbe essere paragonato ad un inflessibile direttore d’orchestra. Se non ci fosse la maestria di direzione dell’udito, ogni organo che partecipa alla formazione della parola o del suono andrebbe per conto suo e creerebbe  anarchia comunicativa e, di fatto, incomprensibilità. Pertanto il sordo di nascita non è che «non può» parlare, si trova nella difficile, e spesso impossibile condizione di non riuscire coordinare tutte le componenti che originano la parola vocale senza che fosse presente, appunto, un capace direttore d’orchestra che presieda alla magnifica sinfonia di «parlare a voce».
Qualsiasi logopedista, a cui è affidato il piccolo sordo o ipoacusico, riconoscerà che ha a che fare con un bambino con voce alterata. Il bambino udente è favorito, con naturalezza, nell’utilizzo del codice sonoroacustico, grazie alla supervisione dell’udito che coordina - come abbiamo notato - gli apparati fisiologici per la produzione vocale. Compariamo: a) —› il bambino udente sovrintende alla produzione linguistica del codice vocale (la parola) col senso dell’udito; b) —› il bambino sordo sovrintende la produzione del segno manuale col senso della vista. I due bambini si differenziano, per lo stimolo sensoriale, a partire dagli ultimi mesi di gestazione. Nel bambino udente il segno vocale si presenta prettamente come entità fondante sull’innatismo imitativo che - col passare le settimane - si identifica di più, e sempre meglio, col mondo sonoroacustico dell’ambiente. Il piccolo convive in uno stimolo-risposta (Skinner B. S. 1957), immerso in un «ascolto e ripeto». E afferma la sua presenza testimoniando,   agli adulti, d’essere uno di loro perché è capace di utilizzarne i codici. Nel bambino sordo la produzione del segno della lingua è, di solito, convenzionale perché  - se non è esposto alla lingua dei segni – finirà per inventarsi, egli stesso, il gesto per comunicare l’oggetto o quanto altro percepito con la vista. Possiamo proporre tanti esempi: la percezione di una sedia sospinge il bambino ad elaborare il gesto motorio, consistente di dirigere le mani in apposite aree del corpo: e ciò si rivela molto di più d’una semplice imitazione fono-labiobuccale, perché implica l’impegno autonomo di un processo cognitivo. Il nostro piccolo – pensiamoci bene - è un genio che si crea la lingua   per comunicare! Voi avete assistito, per caso, ad un udente che, dopo aver percepito il mondo attorno a sé, o determinati oggetti, elabori segni?! Procediamo con queste riflessioni. Supponiamo che io - dalla nascita - non sia esposto alla conoscenza del «segno» della  sedia, non abbia idea di un oggetto che ha uno schienale, quattro aste di legno, un’asse quadrata eccetera. Come potrei nominare l’oggetto? Che so, potrei indicarlo col segno vocale «tak», associandolo al fatto che, sedendomi sulla sedia, odo spesso un  tipico rumore (tak). Io allora siedo sul «tak» e non sulla «sedia», codice vocale pubblicizzato e utilizzato dalla comunità in cui vivo.Ciascun bambino, col senso della vista, elabora significativi segni manuali di comunicazione utilitaristica. «L’uomo inventa simboli e li capisce: l’animale no.»20 Il bambino che ode ha la fortuna di trovare segni già “pronti”. Come se gli avessimo apparecchiato la tavola di veicoli (i codici) e gli venga detto: con essi potrai comunicare idee, emozioni, insomma esprimere le tue potenzialità. A questo punto siamo convinti che non sia lecito che la società predisponga dei codici perché – a nostro giudizio - è anche una forma di controllo dei processi culturali e linguistici! La lingua ha regole (la grammatica) che impasta (e imposta) i codici nell’humus delle emozioni, dalle quali ha genesi il linguaggio ad personam. Se non c’è quest’evoluzione soggettiva, alla fine ci esprimiamo tutti allo stesso modo, senza effettivamente nulla comunicare. 

Ricordiamo che il cisema (o cinesema) è solo una parte del movimento che, uniti ad altri, danno origine al «segno» significativo. Per essere espliciti facciamo una comparazione: i fonemi, combinandosi fra loro, creano un numero illimitato di unità (parole) dotate di significato (Carlotta Butera, Università Bologna 2014, tesi in via di stampa). Di fatto il fonema fa riferimento al “fono” e, il cherema, come indicato sopra, al movimento, vale a dire l’uno origina la parola sonoroacustica l’altro la parola visuomanuale che denominiamo «segni». La psicolinguistica che fa riferimento alla comunicazione del sordo, sin dall’utilizzo del «codice», impone - come è facilmente intuibile - uno studio differenziato. Le unità minime sono prive di significato, statiche. Così il fonema, per ‘mostrarsi’ deve coniugarsi con un simile o una famiglia, diventando cioè morfema. Per esempio: se pronuncio il fonema ca esso non ha significato od è lasciato all’interpretazione personale, aleatoria e fantasiosa; se, invece, unisco - per fare un esplicito esempio -  il fonema ca col fonema sa ho casa (che è una parola): e chi mi ascolta, se conosce la lingua italiana, ha il referente di un edificio. Allo stesso modo accade nel processo dinamico, quando ci moviamo dal cisema verso il segno visuomanuale. La mano predispone la configurazione: se non seguirà il movimento,  tutto resta incerto, diciamo pure muto all’occhio. Il cisema è il componente primario di un lungo processo di sviluppo di abilità motorie alle quali sono associate espressività e posture, per rendere intelligibile il significato, talvolta questo fine - per espletare il segno – è anche un gioco che implica padronanza e conoscenza delle aree del corpo, elasticità di movimenti delle mani e, soprattutto, possesso di espressività che fa la funzione – si può dire -  della tonalità per le parole.

Nel momento in cui obblighiamo il bambino sordo a sostituire i cinesemi coi fonemi, che egli non può ascoltare in modo intelligibile, con difficoltà pertanto d’essere rafforzati nell’interscambio con i pari e gli adulti. Quando insistiamo, nel piccolo, di frenare la genesi dello sviluppo motorio è vera e propria violenza psichica che mina anche i processi psicocognitivi. E’ la stessa condizione dell’individuo che, privato di una sensazione, è obbligato ad interrelazionare col mondo circostante con la difficoltosa, invece di utilizzare, al massimo, la sensazione afferente o sana. Così ci sono logoterapeuti che continuano a lavorare sul «canale in difficoltà», invece di sfruttare il canale intatto: e alla fine le sensazioni non sono né visive né uditive. Nel bambino sordo la comunicazione intenzionale ha genesi dal pensiero visivo. Furth ce lo ricorda nella sua opera Pensiero senza linguaggio (1971, trad.it.), affermando che - il pensiero della maggior parte delle persone -  è costruito sulla verbalità. Lane (1989), riprendendo gli studi e le ricerche sul famoso ragazzo (Victor) selvaggio dell’Aveyron, ammette che il bambino, nel tentativo di comunicare col mondo, crea una forma di pantomima permettendogli di manifestare i bisogni essenziali: la libertà e il cibo.25  Victor utilizza una pantomima o gesti goffi perché non è stato immerso nei segni significativi, non ha un codice adeguato che gli permetta di «vestire» immediatamente il pensiero, d’accedere al referente se non altro mimicamente. Il problema psicologico e linguistico di Victor è assai complesso. Come parecchi studiosi di pedagogia clinica hanno fatto notare. Il ragazzo «selvaggio» ha sperso gli anni fondamentali dello stimolo al linguaggio e - tali privazioni -  hanno causato un evidente deficit intellettivo.

Quando qualche insegnante afferma che nell’attività didattica la comunicazione con la lingua dei segni è limitata, o che non è paragonabile alla doviziosità della comunicazione verbale nei processi apprenditivi, dimentica dire che non ha utilizzato veri e propri segni con referenti precisi, di solito ha sfoggiato una pantomima o gesti istintivi lasciando l’interlocutore nell’interpretazione aleatoria o personale. Il ricevente che si trova a vedere pantomima rimane perplesso, al contrario avrà certezza di fronte al segno significativo. L’alunno sordo segnante si attende, dal suo docente, l’utilizzo di codici di una lingua strutturata di evidenti regole grammaticali, che  noti studiosi dello sviluppo del linguaggio (Chomsky e  altrui) hanno individuato anche nella lingua dei segni. Per questo motivo apprenderla e utilizzarla, in ambito didattico, gioverà moltissimo. Il segno – e ci ripetiamo per l’ennesima volta - trasmette emozioni, pensieri,  apre a domande, comunica esperienze e tanto altro. Grazie a  questi codici linguistici che il bambino sordo, o con difficoltà di audizione, potrà sviluppare compiutamente il linguaggio visuomanuale, di cui necessità!.

Bisogna studiare i processi psicolinguistici del sordo, fondati sul canale visivo, allo scopo di metterlo nella condizione di distinguere quel che è cinestetico (a lui naturale) da ciò che è fonemico prima e morfemico poi se, ovviamente, sarà in grado di appropriarsi della parola vocale nell’esercizio logopedico. C’è un’altra considerazione da fare: l’udente - grazie alla combinazione dei fonemi - è in grado di dire tutto nella varietà dei lessemi, costruendo una moltitudine di frasi a scapito, spesso, del significato. Anche perché all’udente piace parecchio ascoltarsi. Ciò è ancora più pressante nel bambino sordo che è contento e gratificato nell’osservarsi le mani costruire il segno sul proprio corpo o nello spazio neutro. Se noi, per malasorte e pregiudizio, interveniamo bloccandone o frenandone l’iter d’apprendimento, avverrà che l’evoluzione, o la capacità, o l’abilità dei movimenti - principi della produzione del segno - sarà poi deficitaria: e così lo sviluppo linguistico cinestetico del bambino sarà per sempre minato per  approdare ad un idoneo dialogo segnico. E in definitiva non è giustificabile o convincente bloccare - nel bambino - lo sviluppo psicolinguistico quando vuole appropriarsi del segno giustificando – noi – questa decisione alludendo che la società non comunica in lingua dei segni! La conseguenza del blocco è l’alienazione dei processi cognitivi conducendo ad una relazione deficitaria con tutto l’ambiente, divenendo un problema psicologico e relazionale per i familiari  e - nella vita - sarà sopraffatto dall’ansia e depressione. Certe scelte inducono a riflettere sociologicamente sulla vita presente e futura del sordo, quel salto intuitivo di rendere responsabile i dirigenti scolastici delle scuole specializzate (ormai quasi del tutto soppresse) e ordinarie affinché non gli sia impedito l’accesso alla lingua dei segni: e alla cultura che, dalla stessa, proviene o si sviluppa nel corso degli anni.
Renato Pigliacampo

dal I capitolo  (paragrafo 5 ) pp. 36-41 del libro Renato Pigliacampo,  Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2009.

LA SUPERBIA DEI SOMARI

Marzo 9th, 2014
di Renato Pigliacampo
Ho già  scritto  in alcuni libri e principalmente in  (Cfr Renato Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, 2009)  che la lingua è potere. Ma non ho indicato con  quale modalità questo potere  possa  essere  esercitato. Infatti tutti gli individui per confrontare le proprie potenzialità intellettive (compresi taluni animali) mettono in gioco i codici che possono essere veicolati  nei codici visuomanuali  (i segni), grafici/pittorici, filmici e verbali. In questi codici noi individuiamo il medium (il messaggio).

Ora è risaputo che tutti i sordi che comunicano  -  in primis i docenti di LIS – utilizzando la lingua visuomanuale lo fanno su una struttura grammaticale propria     della LIS. Tuttavia per apprendere una grammatica tanto differente da quella  utilizzata dal canale sonoroacustico dello stimolo-risposta (cfr B. S. Skinner) è necessario seguire un percorso  temporaneo di evoluzione  che, nel sordo, inizia  sempre  dopo rispetto l’udente. Infatti è accertato che, il bambino udente, ha stimoli sensoriali uditivi già fra il 6° e il 7° mese di gestazione. Il bambino con problemi d’udito (affermiamo in  questo caso di sordità ereditaria o per altri accidenti) il processo di stimolo avverrà più tardi, ossia post nascita e sarà differenziato rispetto al coetaneo, ovvero uno stimolo  visivo.
Quanto sopra ci conduce a riflettere sulla genesi di produzione  dapprima della lingua e poi del linguaggio in un modus percettivo differente che va spiegato nel processo di apprendimento e di memorizzazione e, ovviamente, nell’utilizzo. Ne ho già accennato nelle ricerche e  studi: troppi sordi in possesso di limitate letture psicolinguistiche sono carenti di attenzioni sul libro di H. G. Furth, Pensiero senza linguaggio, Armando editore, 1971 (1^  edizione italiana!). Un libro ripubblicato più volte nell’edizione italiana ma sempre con limitata conoscenza  della psicologia del bambino sordo o ipoacusico nel suo intrinseco “farsi lingua”  (apprendere il codice) e  poi sviluppare il linguaggio  che è, appunto, un veicolo di scambi nella/della comunità  pregno di emozioni. Molti sordi docenti di LIS ripetono frasi fatte quali «la LIS è la mia lingua», «la LIS ha tutto ciò che ha la lingua verbale», «io sono LIS» e quanto altro portato in piazza o/e nelle aule scolastiche lasciando sbigottiti gli insegnanti curriculari.
In questo valzer di santa ignoranza ogni tanto appare sulla terza pagina di cultura dei giornali o delle riviste studi e interviste di fama quali  N.  Chomsky, di F. Grosjean, di Tullio De Mauro, di  W. Stokoe che ci tranquillizzano con altre frasi quali «la lingua dei segni è lingua!». Qualche  docente sordo di lingua dei segni, perlopiù con pochi esami accademici e studi approfonditi sulla teoria della lingua, sulle aree cerebrali che sopraintendono la produzione del codice (segnico e/o sonoroacustico) ripetono alla lettera le solite frasi fatte: «è la lingua dei sordi», oppure qualche udente pregno di pregiudizi e frettoloso annuncia frasi alla carlona quali:  «la LIS – nel nostro caso – blocca l’apprendimento verbale» o, peggio, «la LIS impedisce al sordo di strutturare la comunicazione scritta». Nessuno si chiede se la LIS è insegnata bene; se la lingua italiana ai sordi è insegnata male e/o perché.
Ci sono altre domande fondamentali: per esempio la strutturazione dei «codici» per veicolare la cognizione della specifica materia d’insegnamento. C’è un buon numero di  sordi frequentanti l’Università per conseguire la laurea, spesso fruisce del servizio di interpretariato visuomanuale, vale  a  dire  di codici visivi. Non sempre si può avere, come interprete di LIS, una  interprete laureata nella disciplina del corso di laurea dell’utente sordo, pertanto a volte - più che “segnare” codici appropriati che non sono in voga - l’impegno dell’interprete è solo optare  per la ripetizione  letterale della parola.
Io non sto a pontificare che l’interprete non sia all’altezza  di «tradurre» il contenuto di ciò che lo studente ha studiato sul testo  dell’esame. Vi ricordo che il libro o i libri su cui – a livello accademico – sono scritti per accedere all’apprendimento e di fatto preparare gli esami avvengono >(nel nostro caso) in lingua italiana nel linguaggio specifico della materia. Pertanto ciò induce alla elementare attenzione dell’utilizzo di un «codice» visuomanuale che veicoli i profondi contenuti del testo.  Questa sortita sulla  codificazione  di “segni specifici” che, ovviamente, deve  essere ben conosciuta  fra traduttore  e l’utente vale per tutte le materie insegnate! Ecco che s’apre un dibattito che  ci conduce ad un percorso d’insegnamento della lingua dei segni che implica intrinsecamente diramazioni settoriali nella materia  di Lingua dei Segni nella  sua  specificità, ben  individuata da William Stokoe (cfr Sign Language Structure, 1960).
In conclusione, senza accedere in una critica né alienante né umiliante verso i docenti sordi e/o udenti che, con buona volontà,  s’impegnano a diffondere la lingua dei segni italiana abbiano l’umiltà di apprendere tutti i fondamenti  cerebrali di attivazione  della «lingua»: una volta compreso a  fondo quanto sia complessa allora si lavorerà sui  presupposti di evoluzione caratterizzanti la lingua visuomanuale, godendone tutta la doviziosità e che fa dire al genio di Leonardo da Vinci i«sordomuti sono maestri dei movimenti e intendono da lontano di quel che uno parla, quando egli accomoda i modi delle mani con le parole».
Renato Pigliacampo

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