OSSERVANDO

Aprile 10th, 2011

Vedo di là della finestra
una foglia che cade dall’albero
che le detta vita;
vedo una piuma alla frusta del vento
vedo - non sento - il pianto d’un bimbo
che s’aggrappa alla gonna della madre.

Tutto è debole.
Tutto ha bisogno di qualcuno.
Solo quel maiale non necessita mano;
ahimé di sudiciume cosparge il giorno.

Abbiamo bisogno di tutto e di tutti
per vivere (degnamente) la vita.

Da Anni, anni che vanno!, Edizioni Tipografia San Giuseppe, Macerata 1967.

Hanno scritto su Renato Pigliacampo

Marzo 25th, 2011

«… la sordità non è un ostacolo ad una persona dotata di viva intelligenza, anzi dotata d’ingegno, di esprimersi artisticamente in prosa e in poesia.» (Diego Valeri, Venezia 23 giugno 1973, lettera all’autore).

«Lei è scrittore, è poeta, e il suo difetto fisico, invece di precuderle certi strumenti espressivi, glieli migliora o comunque glieli caratterizza sia tecnicamente che umanamente… » (Cesare Zavattini, Roma 6 luglio 1978, lettera all’autore).

Alcuni interventi di critica sulle Opere edite.

Per Dal Silenzio, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1983.

«Dal nascondiglio della memoria le figure, a volte parvenze, a volte fantasmi, accompagnano la vita di adulto, la sua odissea scandita sul modello del dolore ungarettiano dei fiumi, l’amara condizioe, il suo nomadismo fra treni, stazioni deserte, solitarie attese ingannate da allucinazioni (…). Il furore per comunicare con quella parola che non può ascoltare e che vorrebbe esorcizzare… C’è il filone del sociale, delle sue origini, delle scelte ideologiche che poi defineranno la sua filosofia nei rapporti con le Istituzioni, la politica, il volere o l’attesa che gli altri facciano ciò che lui non può fare: l’impossibilità di intervento nel mondo delle voci, il dialogo… » (Luigi Martellini, docente di Letteratura moderna e contemporanea all’Università della Tuscia, Viterbo 1983).

«Nella poesia di Renato Pigliacampo c’è un cammino interno: una luce del silenzio che avanza e conquista il poeta: è una meraviglia di poesia che cerca di possedere il poeta (…). C’è poi una continua eco di denuncia. Ed è allora che la poesia di Renato Pigliacampo diventa un intenso canto di umanità, desiderio civile, ricerca e presa di coscienza: un continuo processo di liberazione.» (Gastone Mosci, Università di Urbino, 1983).

«C’è un fervore di sontuose invenzioni e visioni, che testimoniano una vocazione autentica e originale… Mi piace la capacità, che mostra, di giocare col verso, sul linguaggio, sulla creazione di miti: (…) canta di una poesia come autentica alternativa al reale e al fenomenico.» (Giorgio Barbèri Squarotti, Università di Torino, 1984).

«… la parola negata si è fatta segno, diventando così il suo più efficace mezzo di comunicaione. E’ quasi d’obbligo il richiamo a Beethoven, gigante in un mondo di suoni dal quale la natura lo aveva scacciato. Come Beethoven con la scrittura musicale, Pigliacampo evade dal lager del silenzio con la scrittura poetica.» (Serena Caramitti, Roma 1985).

Per l’opera Radice dei giorni, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986.

«Meraviglia, stupisce, accende la fantasia, esalta la nostra sensibilità, ci fa sentire rami secchi la poesia di Renato Pigliacampo, non solo per i temi profondi di significati ma per l’amalgama armonioso-ribelle della scrittura del suo mondo lirico. (…). Le parole non udite diventano veri, partitura musicale di un poetare puro per una pura coscienza… » (Nora Rosanigo, Presentazione della silloge, 1986).

«Piace in Renato Pigliacampo anche un tono di fiaba che rimanda ad un altro marchigiano, Ugo Betti; e di Betti il Nostro presenta anche il tema dell’innocenza; infatti, quali petali bianchi si fanno certe sue parole,  certi versi! (…) La sua voce è sempre personale e pertanto convincente, con una collocazione dell’immagine fresca e opportuna stemprando la pena del vivere nel capire soprattutto la bellezza della terra marchigiana, scoperta goduta evocata da un giovane che ha potuto vedere quanto cantando il suol si disacerba (…).» (Rosa Berti Sabbieti, Macerata 1986).

«… A questo silenzio del mondo il poeta oppone un suo segreto linguaggio, quello della poesia, che sarebbe straniero se non fosse filtrato dai codici della tradizione. Come l’idillio rappresenta il desiderio di ritornare all’infanzia, nostos contraddetto  dalla ragione e quindi  ridotto ad essa, così anche l’Oceano subisce lo stesso processo di ridimensionamento: basta contare il tasso delle parole-tema quali ‘gocce’ e ‘lacrime’. E’ come attraverso la lingua della poesia la Natura fosse diventata corpo e carne dell’uomo.» (Remo Pagnanelli, Macerata 1986).

«Poesia del silenzio che coglie il suo fondamento e la sua Origine nella solitudine perfetta che la parola vive nel suo corpo. Non solo e non già nel vincolo dell’impossibile fonazione, ma più esistenzialmente nella coscienza del limite dell’uomo, atterrito dalla brutalità del mondo e della Storia.» (Guido Garufi, Macerata 1986).

 «La grazia della poesia di Renato Pigliacampo sta, in gran parte, nelle suggestioni delle immagini, nel lieve uso che ne fa, discreto e preciso, il poeta, quando si piega a contrappuntare i sentimenti con l’inusualità delle figure, con l’eccentricità delle vissioni o con il segreto di una miscelatura molto garbata, ma nello stesso tempo molto essenziale. (…) ma la parola in Pigliacampo ha un’altra funzione, ben più profonda che non quella radicale di ‘fondare’ una realtà viva , oltre alla concretezza del ondo; funzione che è quella di  predisporre al discorso l’anima di ‘un altro’, quel sé stesso che non ode, che non sa ascoltare il mondo, che non vuole conoscere il mondo del rumore, del frastuono, del nulla: ed è qui che si risolve allora la forma, la creazione di una forma, i  fasti di una visione del mondo che è gentile, indifferibile.» (Giancarlo Prandini, Cremona 1986).

«Non è di tutti i giorni trovare un poeta così umano, vero e profondo. (…) Il silenzio è verbo, il senso della frase poetica, del sintagma, fiorisce amara, non disperata, il pessimismo leopardiano stempera in dolcezza. (…) linnguaggio personale, moderno, umanissimo, che scava anima e mente in una simbiosi perfetta. E spazia oltre il bene e il male del vivere.» (Lea Ferranti, Ascoli Piceno 1986)

«… Quel che affascina, nella lettura,  è un continuo riferimento ai luoghi natii, con precise ubicazioni e indicazioni a posti che durante il perigrinare forzoso dei suoi anni giovanili ritornavano alla memoria, prendevano corpo, mentre le azioni, rifluendo, si andavano sistemando nel corpo della poetica che Pigliacampo elaborava. (…) Quel che meraviglia invece, pur privato dell’esperienza onomatopeica, è la capacità di una gamma di variazoni tali da rendere fascinosa la lettura anche fonetica del suo lavoro sempre ardito (…). Renato Pigliacampo, uomo, studioso che si interroga e costringe ad interrogarci, perché esce dai possibili compatimenti e scava, sa elaborare presenza e arcano, robusta realtà e ricreazione mitica. Non è questo un legame tra uomo e poesia?» (Giancarlo Montanari, in Quinta Generazione, n. 159/160, Forlì 1987)

«…I testi poetici di Renato Pigliacampo emano un affrato di miracoloso: essi emorgono allo splendore di luce universale da un compatto mare di silenzio.  (…) In lui la poesia fiorisce, cresce e si consolida in una struttura di taciuti e sofferti interrogativi: e dal profondo dell’io viene formulata sulla pagina in un costante colloqquio con se stesso, anche quando si figura la presenza dell’altro… E nelle altezze silenziose, spogliate da ogni fisico peso, nascono nella limpida mente del poeta versi che anno la forza di assioma: “Vivere è sapersi accettare”. La verità di questo verso non riguarda soltanto chi lo scrive, ma assume valore univerale, perché la saggezza del vivere sta proprio nel sapersi comprendere e di volta in volta non disperare delle proprie condizioni.» (Vincenzo Rossi, in Quinta Generazione, n. 159/160, Forlì 1987)

Per la raccolta Adobe, Nuova Compagnia  Editrice,  Forlì 1990.

«Pigliacampo non dimentica che egli potrebbe essere definito il muro che si fa voce; se non fosse stato colpito tanto amaramente dall’invalidità non avrebbe scritto un libro tanto sofferto, e quindi convincente, non sarebbe forse arrivato alla televisione di stato nella sua mirabile opera di educatore degli audiolesi, non avrebbe scritto opere serie a carattere socio-psicologico e semiotico, non sarebbe una voce di poesia, non solo tra quelle più valide nella sua terra, le Marche, ma di più ampia risonanza. (…) In Adobe è mirabile la freschezza dell’ispirazione, la misura del racconto, la dolcezza di tanti stati d’animo, la bellezza di vari paesaggi, l’energia della scrittura in una lingua ‘d’umiltà e d’amore’. » (Rosa Berti Sabbieti , in Tribuna Letteraria, Abano terme 1991).

� «Una poesia che continuamente trascorre dalla reltà al mito, della prima traendo le occasioni, l’inquieta problematica esistenziale o denuncia sociale (la sordità verso chi soffre per una colpa non sua), del secondo creando figurazioni che hanno come costante il paesaggio marchigiano con le ondulate colline e il mare, orizzonte in cui l’anima ama smarrirsi: il tutto in uno stile maturo, controllato nella modernità lessicale, personalissimo e accattivante.» (Silvano Demarchi, Bolzano 1791)

«…  Ma per il resto, il Nuovo di Recanati, è esclusivamente se stesso, poeta di un silenzio trovato, subìto, forzatamente accettato ma che non ha dissolto né diminuita quella vena innata che tanto regala e tanto diffonde… » (Renato Leti, in Centritalia, n. 22, Rieti 1990)

«…Il senso vero di questa poesia non è affatto la lotta, ma la nostalgia (sentimento patico formidabile, che riguarda cose che non si sono mai  possedute) per un mondo dove non è necessario riscattare, perché non si è rimasti feriti e non si è ferito nessuno. (…) il linguaggio è per scelta aspro, volutamente teso all’espressionismo delle idee e dei sentimenti, e allo stesso tempo alla resa gnomica di massime ferme, eticamente funzionali a sé e al resto degli uomini.» (Rossano Onano, in L’Indice dei libri, ottobre, Torino 1991)

«La poesia - perché si tratta di un testo polemico nel senso originale di polemos, cioè guerra: una personale guerriglia diremmo di Renato Pigliacampo che, per mezza vita, ha sofferto, contestato, lottato strenuamente per i diritti di chi, come lui, ha vissuto l’ingiustizia della società verbale, la violenza dell’altrui parola: lui, audioleso, con un mondo fatto di ipersensibilità, nella generale piccolezza di una realtà miserevole, ma perlopiù vacua); la polemica, si diceva, è una costante in Adobe, un continuo alimento, il fuoco di Erato che ama, ma non sempre è ricambiata. (…) Sono poesie manifesto, affreschi con sprazzi di luce terrestre e celesti ambizioni. Sono composizioni elaborate con un continuo rovello di spiegazione, mentre poi è nelle composizioni brevi, nella sintesi, che i risultati si snodano sul terreno di puro lirismo cosmico.» (Giancarlo Montanari, nella Prefazione, Modena 1990)

«Un grande poeta che, per certi versi, fa pensare al suo concittadino, Leopardi. Egli ha un suo linguaggio: abolisce gli articoli, l’immagine è più viva nel ricordo del tempo udente… » (Giorgio Luti, Università di Firenze, 1991)

«… riconosco nella poesia di Renato Pigliacampo un lirismo sempre nuovo, riconoscibile nel forte presentimento di vigila continua nella vicenda umana. Un lirismo che è, nello stesso tempo, qualità ed esempio, forza e novità dell’animo che si contrappongono alla non ancora risolta definitività del testo. D’altronde DEVE essere così: la poesia tutta, ed ovviamente quella di Pigliacampo, deve essere laboratorio aperto della coscienza e del sentimento del poeta, una sorta di work in progress lungo un viaggio di continua scoperta e di continua azione di squarcio sul reale. (…) Si intuisce benissimo, analizzando questa poesia, la tensione morale e stilistica entro cui essa si muove, l’avvio consapevole di un continuo e motivato processo di dissoluzione e rinnovamento della forma poetica, che culmina in esiti formali di linguaggio in forma di grido e di tormento. (…) Un accenno meritano le analogie di Pigliacampo ottenute con le preposizioni ‘a’ e ‘in’, preceduto dal verbo, al participio (…). Ben altre peculiarità si potrebbero rilevare nella tecnica del suo linguaggio poetico e tuttavia a noi interessa costatare che anche sul piano dello stile, come corrispettivo della loro inesausta tensione spirituale e morale, come il poeta approcci la metafora e il simbolo. (…) Altro aspetto dell’esperienza poetica di Pigliacampo è l’ideologia che lui mette in area di verifica in cui le ragioni in una crisi che lo nasconde come individualità artistica si fanno evidenti nella sottomissione dei nessi sintattici tradizionali all’urgenza dell’autoconfessione autografica e morale. (…)» (Leonardo Mancino, presetazione di Adobe nella sala della provincia di Macerata, 1990).

Per la raccolta Canto per Liopigama, CASISMA Edizioni, Porto Recanati 1995.

«… volume denso di autentica poesia è infatti il canto del poeta alla sua vita, canto che si snoda per molte pagine tra tormenti e ricordi, sentimenti e ripensamenti; in molteplici toni un canto melodioso, a volte sdegnato o deluso, a volte ridondante o accusatorio, talvolta nostalgico o senza rimpianti. (…). Renato Pigliacampo è un uomo che esce dalla massa, ne è situato non solo (per me) al vertice della categoria degli uomini eccellenti del nostro tempo.» (Rosa Rosanigo, Presidente nazionale dei medici scrittori, in La Serpe, n. 2, Roma 1992).

«…il significato del discorso poetico di Renato Pigliacampo prescinde dalle annotazioni autobiografiche e spazia in tutti i campi. Molto interessante è il collegamento con la situazione politica e soprattutto con l’amara analisi della democrazia, all’origine vista in dimensioni oleografiche (…)» (Luana De Luca, Torino 1996).

«La scrittura di Renato Pigliacampo, prima di essere letteratura, senz’altro è vita: la passione che lo anima non ha tempo né confini; il suono che risuona in ogni verso diventa memoria attuale; e il passato si fa prospettiva. (…) Dalla roccia dell’indifferenza che lo fa una sola cosa (ma dialettica) col popolo dei campi, s’alza un volto “disadattato” nella cultura contadina (almeno spontanea e genuina) come dentro la società complessa, che al sapore delle cose vere ha sostituito la parola ambigua capace solo di promettere per velare l’impotenza della politica e della scienza. (…) un impenitente creatore di segni, immerso nel mistero di sé, teso a cogliere la totalità del cavo della parola frammento, affranto dentro al limite, ma ribelle all’esilio, alla pregione amara dell’incomunicazione e perciò cresciuto uomo.» (Gian Mauro Maulo, “Il Silenzio e la Parola”, Presentazione, Macerata  1995).

� Per la raccolta Poema nimittaka per Y, Bastogi, Foggia 2001.

 «… Ciò che meraviglia nei versi non è tanto l’erotismo (…) ma il ricondurre il discorso poetico nella similitudine tra il corpo della donna e la terra madre, la terra natìa. Il linguaggio è perfettamente consono alla narrazione e, per raggiungere questo traguardo, Pigliacampo si serve di termini arabi, kamasutriani, o riempie copiosamente i versi con parole idiomatiche di ogni regione… E c’è pure da riscontrare un legame tra Pigliacampo e Leopardi ‘legato’ allo sguardo sul/del mondo circotante. Costui introduceva il “borgo selvaggio” come incipit per vagare “oltre la siepe”: e il genio di Recanati - e non a caso anch’egli utilizzava parole dell’idioma locale - apriva orizzonti trascendentali e spaziava dagli uomini antichi a quelli d’oggi; e il Nostro, per quanto riguarda questa raccolta, ha riflessioni amorose e seducenti mirando le colline… Pigliacampo è il poeta della natura, del corpo, delle allusioni metaforiche nelle quali segna il suo Silenzio, la sua solitudine, il suo amore, la sua ribellione e ‘protesta’ per una condizione di svantaggio. Egli ha taciuto e continua a tacere con la parola verbale, ma tutto di sé, soprattutto con lo sguardo e gli occhi interrogativi, induce a parlare, a vivere e a combattere… » (Pier Paolo Cantarini, nella Presentazione, Foggia 2001).

Per Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena 1999.

«… Ancora una volta il poeta di Porto Recanati stupisce per la ricchezza dei temi, per la forma poetica del suo linguaggio. Il poeta è un ribelle per natura, Pigliacampo lo è - oltre che per natura appunto - per le esigenze della sua condizione difficile. “Questa è la mia gente di silenzio./ Gente con me convissuta/in queste terre e isole d’acque immote,/nei luoghi di diritti violati;/ la bontà popolana ha donato/ uno scherno riso di risposta Dopo/” (Artefice del domani). Non è un’accusa perché l’autore non si abbassa  ad una sterile querimonia che finisce sempre per alimentare scontri tra istituzioni e fazioni partitiche per quel che non si è fatto o non si fa per la popolazione svantaggiata. La poesia di Pigliacampo è poesia universale perché è l’uomo in toto che si ribella, parla, soffre e spera. Appunto è proprio la speranza che nel Nostro non muore, è la speranza che diventa luce e guida del suo raccontare la vicenda umana. Piglicampo non si lamenta, egli ci obbliga a riflettere, ci porta di fronte ai fatti e ci obbliga -  accanto a lui -a divenire testimoni dell’azione e delle decisioni. Come se dicesse: Ecco tu combini questo, sei questo, imponi questo. Ci mette a nudo insomma. Bella questa poesia perché ti parla, ti scava dentro, ti illumina. Un vero poeta; c’è proprio tutto nel suo narrare: verso estetico, inimitabile capacità visiva che forgia le visioni dei luoghi, della gente di mare e di collina, dei boschi in metafore che restano impresse nella memoria (…)». (Ginevra Camoranesi, in Paginecontro, Rimini 1990).

«… In effetti una delle caratteristiche che tiene alto il tono poetico di Renato Pigliacampo è l’assoluta originalità del verso, tanto che certi nomi e luoghi, appaiono indicare un’esperienza di scrittura di preludio ad un discorso solitario ed umano di indubbio valore anche estetico.» (Ottaviano De Biase, Postfazione, San Lucia di Serino, luglio 2004).

�   I SOVRUMANI SILENZI DI RENATO PIGLIACAMPO.  «I ’sovrumani silenzi’ dell’indimenticato e indimenticabile L’Infinito di Giacomo Leopardi rappresentano lo sfondo, il paesaggio, l’habitat e, starei per dire, il liquido amniotico in cui prende corpo e vita, si nutre, fiorisce ed emerge a tutto tondo il poièn di Renato Pigliacampo ne L’albero di rami senza vento.

Del grande recanatese, cantore dell’anima e dell’impescrutabile parabola esistenziale, Pigliacampo idealmente raccoglie il testimone per farsi a sua volta, come l’inimitabile conterraneo, infaticabile e tenace cercatore di risposte atte a dare senso e misura al faticoso “mestiere” del vivere. Un’ideale staffetta, dunque, che dà continuità e ritmo al viaggio verso il centro dell’insondabile e del mistero. Certo, si tratta di una scommessa estrema, di una sfida che sembra (è?…) puro azzardo, un’impresa di strenua, finanche eroica battaglia, con preannunciato retrogusto di sconfitta. Sono numerosi e ricorrenti i motivi che rimandano all’autore dei “Canti”: oltre alla parola-simbolo di questa simbiosi, ovvero il “silenzio”, anche il “nulla eterno”, la morte, l’illusione, la luna, la solitudine, il mal d’amore, le promesse, la natura, il ricordo, il mistero, il disinganno, la speranza…  Si tratta, certo, di stilemi comuni dalla poesia di ogni luogo e di ogni tempo, ma nella poesia di Pigliacampo questi tratti distintivi vengono reiterati con precisi e intenzionali rimandi, quasi “chiamati” connome e cognome, rievocati e rivisitati con amorevole e deferentee omaggio per uno  spirito di cui l’autore si sente come una sorta di reincarnazione, un “apostolo” di “quella” parola, di “quella” poetica.

Le fasi che contraddistinguono la struttura della silloge prendono l’avvio col il volo dalla natìa Bagnolo di Recanati «oltre gli Appennini verso Roma l’infinito» (Nel mio cuore l’amore); quindi, dopo l’entusiastica parentesi del fervore amoroso, il Nostro subisce la progressiva inarrestabile “deriva” verso il disincanto, la disillusione, il tormento, per finire nella rassegnazione e nella rsa, ma con improvvise fimmate di rivolta. Si profila, così, una exit-strategy dall’aggrovigliata fatica del vivere attraverso un rcupero di luoghi, degli affetti, del tempo perduto; luoghi e affetti e tempo rivisitati in una luce nuova, la luce del rimpianto e della memoria, il ritorno alle origini, alla buona terra, alle “colline di Recanati”, ai “sodi” della contrada Bagnolo di Recanati, dove lo «tabaccolo e il nonno vergaro», insieme all’ “imberbe” nipote, perpetuavano la faticosa civiltà contadina col duro faticoso lavoro de campi.

Dapprima, dunque, l’eros e lo stordimento sentimentale, la breve stagione del fuoco e della passione amorosa: «Sei come le colline delle Marche/…/ Sodi sono i tuoi seni,/ sinuose le tue forme» (- Senza titolo -) sembra di ritrovare, in questi versi, il Neruda del “Canto General”, che peralto il poeta omaggia inserendo, in esergo alla silloge, i versi del Canto XXIV).

E’ la fase vissuta con l’intensità e l’entusiasmo della vertigine erotica e dell’abandono; il sogno che dispiega tutta la sua malia, un campo appassionato e libero che cancella il  dubbio, spegne l’inquietudine, accende voli: «Tu artefice del ritrovato canto./ Sei la musa » (My world, my love). Ma presto l’incantesimo svanisce, si compie il sortilegio, irrompono solitudine e silenzio: «Cessò improvviso l’ascolto del canto/ …/  / Tutto è ammutolito./ Mai più ascolterò il mare./ Ho fagocitato i sogni: / non ti rincorrerò/ avvedendomi pur loro traditori/ illudendo i giorni di gioventù» (Spento il canto). La pena del poeta non ha sponde, tutto diviene dolente memoria d’amore, rifiuto, felicità negata. Anche lui deve bere l’assenzio del tradimento e dell’abbandono, proprio come il “Genio” (una sorta di vite parallele) che, ne  “La sera de dì di  festa”,  si macera al chiaro di luna per un amore che non ha corrispondenze.

nella seconda fase, cadute le illusioni, il poet a si rifugia nella salvifica dimensione della fede e dell’Assoluto; qui, finalmente, il limite della grave disabilità dell’udito può essere azzerato. Per corrispondere col Padre non c’è bisogno dei segni e della gestualità delle mani. Finalmente il poeta può interrogare, chiedere, comunicare, rispondere, stabilire un rapporto “alla pari”, liberato del limite che così drammaticamente ha segnato la distanza tra lui e la società, spesso indifferente, o addirittura ostile e chiusa alla sua richiesta di “ascolto” non solo per sé, ma soprattutto per coloro i quali questo limite rappresenta una barriera insormontabile: « Sapevo che sarebbero scese le tenebre/ dei giorni e della vita (…)/ … / Arrivato il tempo della resa. / Le mani immote ai segni. / L’uomo coraggioso di me/ non più naviga quiete acque./ Elevo il grido di dolore, Padre/ perché rinnovi la promessa di fede» (Sostentamento di fede). Si tratta di una dimensione che comporta una ricerca paziente e sofferta, con la consapevolezza di avere accumuato un debito pesante come “peccatore incallito”, ma che non dispera: «Quando arriverà l’ora, Padre/ saprò staccarmi dai limiti;// non negarmi un cantuccio di cielo» (Preghiera di misericordia).

Ma talvolta il peso della solitudine e dell’abbandono è così insopportabile che la richiesta di comprensione e di perdono cede il passo allla rivendicazione e alla rivolta, tanto da sfiorare il limite del sacrilegio e della blasfemia: «Nel mio esistere a volte sono coì solo che/ la stessa solitudine impaura (…)/  / …;/ solo col bagliore di lacrime/ che scorrono ulle gote per gli errori/ accumulati e i no ricevuti// pure da te Signore» (Solitudine). Ma la solitudine compagna di tante battaglie vinte, è stata anche lei tradita dalla leggerezza e dala presunzione del poeta,  «scciocco farfallone incosciente./ Giusto il tuo abbandono./ L’inferno si sconta in vita.» L’inferno in vita. Il rinvio al celebre verso di Ungaretti, “la morte si sconta vivendo”, rappresenta l’omaggio deferente e riconoscente ad un poeta che ha segnato il Novecento col uo impegno poetico per un’umanità liberta dalla violenza e dalla guerra).

Nella terza fae della silloge, “Memorandum di luoghi e di persone”, Renato Pigliacampo compie il rito del ritorno, un “Nostos” in cui rivivono gli affetti familiari, il canto per una terra amata oltre ogni immaginazione, «Luogo d’infanzia  mio proprio -,/ vitale e caro; elevando gli occhi/ il cuore ammaliato di te./ Chi sei?//» (Le Marche al plurale regione/ ch’espande miei proibiti sogni/ (…)// A te mi dono perché tutto è qui;/ fuggiaso mai, restato all’Avemaria» (Con delicateza messo in eterno sonno). E’ questa la confessione di un amore sconfinato e di un sacro rispetto per il luogo in cui il poeta ha piantato le radici dell’anima, il “Topos” per eccellenza, punto definitivo di approdo, che restituisce la sernità tanto cercata nel suo peregrinare oltre quelle contrade che conservano le memorie più care, i segreti e le epitanie dell’infanzia. Qui il poeta esprime chiara la speranza di ritrovare pace e serenità: «La solitudine mi sarà meno penosa/ dormendo nel solco già dissodato» negli indementicati anni della fanciullezza insieme alle figure dello zio e del nonno, custode amorevoli di quel nipote “imberbe” che con loro santificava il lavoro dei campi. Netta esplode anche la rivendicazione di un’appartenenza e di un possesso di cui altri vorrebbero privarlo, «Già di me hanno sentenziato/ lo sfratto dal borgo selvaggio di mare;/ sulla carta traccio indelebile messaggio/ per i figli e nipoti generazioni future» (ibid.)

Il cerchio dunque si chiude, il viaggio volge al termine, ma non si arrende il poeta, che ancora conduce con determinazione la sua lotta in favore dei compagni a lui accomunati da una drammatica condizione  esistenziale. Ancora è vivo il martirio per un destino avvero: «E’ stato difficile girovagare/ per la penisola con questo Silenzio./ Implosive grida per l’anima assetata», e ancora senza risposta è la domanda rrelativa al istero, al senso dl vivere, al fine dell’umana avventura: «Corpo, siamo passati./ Geo ci assista per l’eternità/ nel groviglio metamorfio venire/ forse ancora in quest contrada?» (Preghiera per Geo).

Sembra l’abbandono di ogni illusione, la consapevolezza di una solitudine cosmica che non riceve segnali, che non trovo ascolto non solo presso gli umani, ma neppure preso il Verbum. Nel consuntivo finale prvale un disperato sconforto, l’ironica amarezza per l’oblio incomprnsibile, quasi un ostracismo, cui lo condanna la “sua” terra: «Non c’è più nessuno a cercarmi/ … / scordato dalla mia Porto dopo il guaio/ cui per vent’anni ho donato il Canto./ Gente comune, d’idiomatico linguggio/ ho sollevato all’attenzione d’Italia./ Solo ora piegato a guardae le onde/ scopro cche la vita discende al fine» (L’ultimo giro).

ancora e sempre il silenzio, dunque, “risponde” al poeta, certifica la fine delle illusioni, marca la distanza siderle tra la realtà e il sogno, cala definitavamente il sipario su ogni spiraglio di speranza e di luce: «L’albero di ami senza vento/ su foglie essiccate nel muto orto/ stasera chiude la storia.» (L’albero di rami senza vento).

E’ resa totola? Sembra di sì. ne prendiamo atto, anche se sappiamo che la tenacia di Renato Pigliacampo ha risorse inesaurabili. Siamo certi che l’orgoglioso, indomabile, camusiano “Uomo in rivolta” che alberga in lui troverà ancora il coraggio e la forza per tornare (proprio lui che la natura ha beffardamente priivato del uono e della musica) a “gridare” la parola, ad indicare la rotta, a tovare, per mezzo di un poièn luminoso, le risposte a lungo cercate e ad esorcizzare il silenzio.

Umberto Vicaretti, Luco dei Marsi, L’Aquila, vincitore del XXII Premio di poesia “Città di Porto Recanati”, recensione del volume,  24 sett. 2011.

da L’albero di rami senza vento, seconda edizione per Neftasia editore  2010.

I GIAPPONESI E L’ASPIRAZIONE CONFUSA DI BOSSI

Marzo 16th, 2011

Avete notato la calma dei giapponesi nell’affrontare lo spaventoso sisma, la capacità di intervenire seconco le necessità di ciascuno? Anziani aiutati nella deambulaione, sordi a fianco interpreti che comunicavano informazioni nella lingua dei segni del loro paese.. Ognuno di noi, in questi interventi di operatori delle istituzioni, ha individuato una civiltà e, perché no?, una politica «differente» dalla nostra confusa e chiassosa. E’ gratificante per noi che, quest’insegnamento, ci arrivi da un paese democratico!

Il terremoto del Giappone è stato considerato, dai sismologhi, uno dei più forti degli ultimi cento anni. Se la stessa energia avesse avuto l’epicentro nella zona de l’Aquila, o vicino Roma, avrebbe radiato al suolo la capitale. Qual è l’insegnamento che ci arriva dalla terra dellevante? A mio parere è esplicita una verità: chi vuole essere leader di un popolo o di una fazione, ossia di un partito o gruppo, deve vestiri di umiltà, deve avere cultura ed essere equilibrato, equo. Il leader imparziale non deride tutte le proposte dell’opposizione perché riconoscerà che - la fazione - è la cellula dell’insieme del corpo sociale, la greca res pubblica. L’Italia, invece, continua ad essere paese fazioso perché governata da persone, più che da statisti, che sanno recitare la politica, appunto «attori della politica», da arrampicatori che si circondano di yes-men, da imprenditori che approfittano di amici, entrati in politica, spesso sponsorizzati da loro stessi. E’ originata una spirale che spesso diventa oligarchia.

Il signor B. è capo del governo non per un merito particolare, ma perché ha saputo truccare le carte sfruttando l’ignoranza mediatica dell’Italia, per lo più acritica nella diffusione della cultura e dell’informazione. Che Bossi resti raggruppato, con i propri eguaci nella padania, è una demagogia spicciola ed egoista confondendo la res publica con la domus di una terra fantasmagorica nella quale si è autoproclamato dominus.

AGGRAPPATO AL SILENZIO

Marzo 16th, 2011

         2 marzo 2011, alle Marche ferite dall’alluvione

 

Io non ricordo più quel che sono stato

nei giorni infanti nella casa sparsa

oltre il Colle dell’Infinito, nella contrada

di gente a mezzadria pregante in idioma e

nel mese mariano sull’altare porre Speranza

sulle biade e quintali di grano la cascina inondare.

Perduto mi trovo sul litorale di Potentia

qui esiliato non più mi so donde arrivo.

I miei paesi sono ormai senza tempo

                                                  né storia,

già fanciullo mi spersi in terre padane e

in quel di Padova mi affacciai scrivano

su opere sottratte in biblioteca d’istituto,

in cui apprendevo segni guidati dall’occhio

perché l’orecchio chiuso inintelligibile al verbum.

Non sono più poeta che scrive di getto.

Non avrò isola serena, lasciata.

MORTE DI UN VECCHIO RIVOLUZIONARIO

Febbraio 21st, 2011

Ho consumato tutti i miei giorni

in un abbraccio di pensieri    silenzio

credendovi gioia          felicità:

felicità  - dico.

E sognavo aquiloni fatti di cartone

volare più alti nel cielo democratico:

rubicondo felice di sogno:

spazio d’uguaglianza vagheggiato in vita

con promessa di riscatto;

 

fervide speranze rivoluzionarie

per rotte d’avvenire.

 

Tu fosti, invece, sporta di ceralacca

avevi toppe sui calzoni

davanti a casa, strada a ciottoli,

sventolava sempre bandiera di partito.

Com’era ridicola l’idea di ribellione!

Te ne fuggisti di notte

dopo l’imprevista sconfitta.

Ridevano a crepapelle

i compari del partito vincitore

dei tuoi comizi falliti.

 

Te ne andasti come un cane bastonato:

tutto annullato per il voto.

 

(Ancora oggi dicono di te

lungo i paesi della costa.

I vecchi avvinazzati:

“Aveva fegato l’uomo”)

da Canto per Liopigama. CASISMA Edizioni, Porto Recanati 1995.

IL VERGARO, LA DONNA E I SORDI

Febbraio 14th, 2011

Quando ero piccolo vivevo nella valle oltre il Colle dell’Infinito leopardiano. Mio nonno paterno mi aveva insegnato i segreti nel ‘leggere’ il volto delle persone: fisiognomica perfezionata poi negli studi, per necessità di superare l’ostacolo della disabilità uditiva.

Quando nei primi tempi andavo alle riunioni dell’Idv, mi inalberavo parecchio, perché niun cane si degnava di farmi comprendere l’interloquio, sebbene fossi stato invitato all’incontro; coi tempi poi ci ho fatto il callo e, con maestria, ho iniziato a ‘navigare’ sui volti e la motilità dei presenti. Individuando tantissimo senza necessità (talvolta) di audizione. La sintesi di un’alta percentuale di popolazione politica dirigente dell’Idv è amara, esplicita negli eventi susseguenti di taluni politici che hanno abbandonato poi ADP, o dei voltagabbana. Certa gente idvista non è migliore di chi critichiamo negli altri partiti. I valori professati con energia divengono solo esercizi articolatori per produrre verbalità. In talune sezioni dell’Idv, se sei sordo o cieco, o che altro non so, resti tale nella tua grave disabilità sensoriale. Non sei persona, sei una tessera e, il peggio, accade quando sei sordo dove non c’è uno qualsiasi (sebbene tu sia notissimo) che ti dica: posso far sì che tu capisca quanto avviene in questa riunione? Una realtà oggettiva che non entra nella testa dei dirigenti locali! Ma avviene sempre la smania di acquisire più potere. Sono evidenti realtà che annuncio da anni. Mi accorgo che ADP è crocifisso con i suoi «iscritti speciali», non è ascoltato in periferia, e non fa come taluni leader dei partiti europei dove, i disabili sensoriali in particolare, sono aiutati a testimoniare le proprie esperienze di vita nei consessi politici. All’EU ci sono ben 4 deputati profondamente sordi. Se l’Idv vuole essere creduto inizi a dire, a 360°, al disabile sensoriale iscritto all’Idv: cosa vuoi che il partito faccia perché tu divenga partecipe nella nostra politica?

Se il signor B. degrada la donna, senza valutarne la mente superiore all’uomo, non ci sembra che certi partiti, compreso l’Idv insisto, sia artefice di valorizzare iscritti coraggiosi con titoli scientifici e culturali idonei, talvolta li usano come “portatori d’acqua”, come il Signor B. prostituisce il body della donna! Mai sono stato, in tanti anni che faccio politica col l’Idv, messo a confronto con chi si autocandida o con chi è sospinto dal leader locale per essere eletto, nasce il disamore della politica inducendo parecchi disabili ad affermare, tanto vale che resti nelle associazioni, per criticare il/i partito/i dall’esterno. Credo che in tanti pensano così, ma non scommetto più sul loro masochismo.

Giustizia e disabilità (prima parte)

Gennaio 7th, 2011

Martha C. Nussbaum ha portato l’attenzione sulla teoria delle capacità, allo scopo che ciascuno di noi raggiunga la felicità che esprimerà secondo le sua potenzialità. L’autrice ammette che è un errore del nostro tempo (cfr Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, appartenenza di specie) che la democrazia e la politica devono essere  gestite solamente da chi è giudicato normale. Portando di fatto l’attenzione su tre problemi irrisolti: 1) le questioni della giustizia nei confronti delle persone con  handicap; 2) il problema dell’estensione della giustizia a tutti i cittadini; 3) il nostro modo di trattare gli animali non umani.

L’autrice ha presente che è sbagliato considerare cittadini – come succede  in particolare oggi – solo baldi giovanotti, escludendo l donne, i bambinoni, gli anziani e i disabili. Siamo nell’errore iniziale di fornire i principi politici fondamentali di una società solo ai giovani, ma dobbiamo far sì che sia estesa a tutti i cittadini. Per Nussbaum la teoria della giustizia di Rawls è la migliore perché non esclude nessuno dalla partecipazione democratica se non che chi  si vuole tirar fuori dalla società stessa. Se i disabili sono considerati membri della società, come i fondo essi sono, è evidente che la società  è chiamata a risolvere i loro problemi  di partecipazione  (superamento della disabilità delle strutture e del personale specializzato ) affinché le  loro potenzialità siano  attive nel conteso della stessa società. Una volta, per esempio, si torturava chi mancino. Era un pregiudizio. Considerato addirittura handicappato, simile alla donna che, a detta degli uomini, incapace di  esercitare delle professioni in quanto soggetta al ciclo mensile, e di fatto disadattata a decidere con serenità in quei periodi. La democrazia allora non esiste per disabili? E chi la garantisce poi? Sono sempre “quelli lì” a comandare con le stesse strutture dotate per i normali.  Questo, di fatto, mina la democrazia alla base  perché qualcuno manca.  E ciò che dice Sylvain  Maréchal nel  Manifesto degli Eguali  nei quali sono ammessi gli affilati egualitarismi di Babeuf e dei suoi congiunti. Maréchal invoca una società in cui «non ci sono più fra gli uomini altra differenza che quella dell’età e del sesso».

Buttare fuori con disinvoltura donne, bambini e handicappati dalla nave della politica quando lo si fa nel loro primo affacciarvisi perché c’è il sospetto che siano migliori, soprattutto  nei confronti dei bambini accostati per l’alfabetizzazione sulla Giustizia, anche con la presenza di Figure carismatiche o da imitare, e se li escluderemo (a parte la farsa dei consigli comunali dei bambini) ci comportiamo nello stesso modo di quando schiavi, donne, handicappati  e stessi bambini non avevano nessun diritto. Non dobbiamo più continuare a giocare sull’ambiguità del termine «diritti dell’uomo», occorre, invece, valutare che cosa può dare quest’uomo quando è messo nella condizione di partecipare nelle sue potenzialità per facilitare la crescita della democrazia nella società.

Tacere

Gennaio 7th, 2011

Noi che affermiamo d’essere specie umana
non ci avvediamo dell’egoismo
quotidiano innestante
“tutti siamo eguali”;
invece c’è sempre taluno superiore
che reprimiamo per tenerlo nel ricinto;
l’Italia a volte lascia
intelligenza esiliata in stranieri siti a fatica
la lingua biascica,
negligente fu per lui la patria
formica misconosciuta, vaga. (…)

Politico, giustificarsi non serve.
Sei quacchero, zero.
Quel che fa piangere il cuore
è che non lo sai;
nello scranno di eletto a Montecitorio articoli parole vuote.
Non hai capito - dai saggi qui passati -
che tacere è sinonimo d’intelligenza.

Bugia e menzogna

Gennaio 7th, 2011

Caro Marco, lo spazio di questa Rubrica è, stavolta, per i giovani e per te.

Vi porto di fronte ai pilastri della realtà quotidiana: il Vero e il Falso. So che ridi. Ma se aggiungo, anche della Menzogna, sei preso da una motilità nervosa, dall’ansia. Il Vero e il Falso talvolta siamo in grado di identificarli con un po’ di attenzione e ragionamento. Difficile, invece, la Menzogna, la quale ha genesi da un’azione predisposta per nuocere, per far del male a qualcuno, per ricattarlo, per piegarlo ai voleri. Mentre sto scrivendo non so come finirà (politicamente) lo scontro Fini-Berlusconi. La gente è confusa. Perché - il vero e il falso – sono conosciuti con i tuoi occhi, con la tua mente: la Menzogna ti resta sempre appiccicata addosso, resta nel tormentoso dubbio. Ti ricordo che il Signor B. si vanta d’essere amico di Putin, il quale era capo del Kgb, la polizia segreta dell’URSS!  L’allievo italiano si sta comportando da studente diligente! Stranamente i dossier appaiono nei confronti  di persone che dànno fastidio, o adombrano il potere del leader. Il signor B. ha inventato una democrazia pro domo sua, abituato com’è a guazzare nel fango: e poi col megafono delle sue televisioni e di servili giornali, punta a distruggere l’avversario politico. Non c’è dubbio, ci sa fare: è un artista nel confondere e creare casini. Poi, chetate le tenzoni, il Burattinaio si propone al malcapitato per la soluzione del problema per il proprio tornaconto. Ovviamente il popolo che non reagisce è mentalmente depredato, la carenza di ragionamenti politici affossa, talvolta addirittura affascina (!) e come scrive Tocqueville: il potere tirannico seduce il popolo.

Fino a quando avremo un padrone che guida un partito come fosse un’azienda non avremo speranza di uscire dalla politica “ingessata”, mai avremo una Cultura di “liberazione”, un confronto con idee e proposte. Perché tu non sia obbediente, cioè servo dei “costruttori di menzogne”, devi guardare l’interlocutore negli occhi e tenere a portato di mano la Carta del  tuo Paese: con la dialettica illuminata e il confronto potrai vincere il Menzognero. Oriana Fallaci, donna forte, afferma che se l’autocompiacimento è il  sale della dittattura (v. il signor B.), la “critica è il sale della democrazia». Qualcuno ci liberi dal letame sparso in questo Paese.

IL SIGNOR B. E L’ADESCAMENTO PARLAMENTARE

Gennaio 7th, 2011

Le persone critiche, utilizzanti il proprio cervello, che non si adeguano ad uno psittacismo di maniera, si saranno accorte che Berlusconi, nei momenti ‘diffcili’ del suo governare, compie uno sforzo di «discolparsi» delle proprie azioni, con la fisima di scaricare sui «comunisti» ogni loro fallimento. Più che essere una questione psichiatrica, siamo dinanzi ad un’astuzia diabolica; più che «bugia», è «menzogna». Molti giornalisti e politici di opposizione scrivono ad orecchio, per sentito dire, invece la parola va dapprima decodificata e poi interpretata nel contesto dell’azione. Il signor B. guida  «il governo del non fare (sic!)», ma anche una squadra di fenomenali massmediologi e teoroci della comunicazione capaci di alterare il significato delle parole secondo «il» momento. Le mutazioni dei significati emergono a bizzeffe: «rientro di capitali», martellamento per settimane dei media per indurre il popolo acritico a pensare: “porteranno (i ricchi NdA) soldi per investimenti in loco (in Italia)”, nascondendo, alla semplice definizione (ma troppo esplicita): «il premier dà opportunità, agli evasori fiscali, di riportare in Italia i soldi nascosti all’estero»; «i magistrati di sinistra» e/o similari sortite sui giudici non graditi, inducendo il lettore disattento a pensare che, se commetterà un reato, non sarà giudicato da un giudice equilibrato, ma da «un giudice di sinistra o comunista», di fatto fazioso, venduto, col riferimento che, il male, è sempre a sinistra. Si possono analizzare decine e decine di locuzioni togliendole dal contesto e che, poi, incredibile (!) tutte conducono all’osanna del premier, ritornando all’occhiello o al titolo dell’articolo, cosicché il signor B., diventa «il miglior capo di governo degli ultimi 50 anni!» Il lettore di giornali non schierati, l’ascoltatore delle emittenti berlusconiane, si fanno l’idea che B. governi la res publica per il bene dei cittadini. Quando questo bene per/dei cittadini non emerge o ritarda ad apparire (vedi l’Aquila, Napoli e tante altre emergenze), la colpa ovviamente ricade sui comunisti, sui magistrati che intralciano i progetti. Il signor B. è prevenuto perché è abituato a corrompere - a ‘ungere le ruote’, nel gergo comune - di fatto gli è ignota la dirittura morale dei laici di sinistra: si pensi a Pajetta, a Terracini, a Togliatti, a Ciampi, ad Amendola e a tanti altri. Nell’intrigo di demonizzare «i comunisti» partecipa - col premier - tutto il suo entourage mediatico. La “menzogna a tavolino”, come l’ho definita, muta il significato della parola stessa, la sua imago. Eccoci di fronte al kofos aristotelico l’inquinamento delle azioni giuridiche condotte nelle diatribe e di rinvio a giudizio contro la magistratura; l’estemporanea pressione sui pubblici ufficiali e spacciare fandonie (vedi la storia di Ruby); sul misturato sistema di emittente pubblica e privata, allorché è controllore-controllato, elevano il signor B quale  fenomenale giocoliere della “cosa pubblica”, di cui non avremo corretezza amministrativa e democrazia sino a quando  sarà capo del governo, e lo   sarà a lungo perché troverà sempre un sodale - suo pari - che starà al gioco. Le persone con un buon cervello l’hanno capito. Ma la presunzione della gloria e della platea che spetterà al leader che vincerà il Drago, induce la coalizione a tergiversare… Docet ADP, col coraggio che lo distingue, dice: «Mi alleo anche col diavolo, pur che finisca l’era Berlusconi!» Non è odio per il premier, ragionevolezza e equilibrio di riaccendere la fiaccola della speranza.