Nel Nuovo Testamento si parla dello «spirito muto», ovvero di “alalos”. Padre Vicenzo Di Blasio, noto studioso sui sordi nel periodo dell’Antichità, ci fa sapere che la parola greca alalos è formata dalla “a” privativa e dal verbo laléo, (parlo), di cui sortisce appunto «alalos» che sta ad indicare “colui che non parla”.
Ma tutti sanno, a meno che non siano kofos (vuoti), che si può comunicare senza per forza utilizzare la loquela. Senza seguire i tanti studiosi che hanno trattato la comunicazione senza esprimersi a voce, facciamo un salto con psicologi moderni, in primis, H. G. Furth, di formazione statunitense, il quale è stato il primo a diffondere l’attenzione sull’intelligenza dei sordi, col libro Pensiero senza linguaggio. Implicazioni psicologiche della sordità, Armando editore, (prima edizione in Italia 1971!), seguirono molte riedizioni e ristampe.
Di fatto la ricerca ci conferma che il linguaggio si sviluppa anche senza la peculiarità del consueto canale sonoro-acustico.. Qui s’apre un gran dibattito. Con eccellenze e dispute e le relative diatribe fra filosofi del linguaggio e linguisti puri dalla metà se secolo scorso ad oggi. Mettendo punti fermi sulla “lingua” e sul “linguaggio”. Molti sordi, studiosi della LIS, la lingua italiani dei segni, fanno fatica – se non possiedono seri studi di base di autori da Chomsky a Grosjean, da Stokoe al nostro De Mauro, da Piaget a Sapir e tanti altri, senza scordare (de) Saussure col suo Corso di linguistica generale – ad approfondire, con un’attenta analisi critica e comparativa (e ovviamente grammaticale) la lingua che si evolve e memorizza per via del canale visuomanuale da quella che si fonda sul canale sonoro-acustico.
Oggi non si studia più, salvo rari casi di specialisti, il pensiero dei sordi. È pur vero che si è tentato, in questi sei lustri, dall’accoglienza (cfr legge 517/1977) dei sordi nella scuola pubblica, di mascherare il termine «sordomuto», sino all’approvazione della
legge 20 febbraio 2006, n. 95 che, giustamente, ha imposto che fosse abolito il vecchio termine a favore di «sordo» in tutte le istituzioni burocratiche che trattassero i diritti dei sordi. Letteralmente ci fu un salto enorme (e tante contraddizioni, cfr Renato Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, 2009) dal termine sordomuto (periodo del Congresso di Milano del 1880, guidato da Mons. Giulio Tarra, che imponeva di «insegnare la parola con la parola» (ma nelle sue scuole c’erano ancora le effigi specificanti “Istituto per Sordomuti” e all’attuale, come detto “sordo”. Ma l’evoluzione del mutamento della parola continua facendo supporre che avviene perché - da una parte non si intende macchiare la famiglia dall’altra per rivalutare molte professioni allo scopo che, ad ognuno, sia offerto uno spazio operativo e quindi occupazionale.
La sordità è diventata terra promessa come una volta i nostri emigranti speravano di trovare lavoro nelle estese terre argentine o in Brasile per sopravvivere alla fame.
Più che mai è urgente un settore statale, che potrebbe essere un ente parastatale, come era una volta l’ENS, perché metta fine all’ambiguità e alle disgrazie dei sordi siano adulti che in età evolutiva.
Interverremo ancora (sulle tematiche).
Renato Pigliacampo