La tenacia di Renato Pigliacampo esorcizzerà il Silenzio
«I ’sovrumani silenzi’ dell’indimenticato e indimenticabile L’Infinito di Giacomo Leopardi rappresentano lo sfondo, il paesaggio, l’habitat e, starei per dire, il liquido amniotico in cui prende corpo e vita, si nutre, fiorisce ed emerge a tutto tondo il poièn di Renato Pigliacampo ne L’albero di rami senza vento. Del grande recanatese, cantore dell’anima e dell’impescrutabile parabola esistenziale, Pigliacampo idealmente raccoglie il testimone per farsi a sua volta, come l’inimitabile conterraneo, infaticabile e tenace cercatore di risposte atte a dare senso e misura al faticoso “mestiere” del vivere. Un’ideale staffetta, dunque, che dà continuità e ritmo al viaggio verso il centro dell’insondabile e del mistero. Certo, si tratta di una scommessa estrema, di una sfida che sembra (è?…) puro azzardo, un’impresa di strenua, finanche eroica battaglia, con preannunciato retrogusto di sconfitta. Sono numerosi e ricorrenti i motivi che rimandano all’autore dei “Canti”: oltre alla parola-simbolo di questa simbiosi, ovvero il “silenzio”, anche il “nulla eterno”, la morte, l’illusione, la luna, la solitudine, il mal d’amore, le promesse, la natura, il ricordo, il mistero, il disinganno, la speranza… Si tratta, certo, di stilemi comuni dalla poesia di ogni luogo e di ogni tempo, ma nella poesia di Pigliacampo questi tratti distintivi vengono reiterati con precisi e intenzionali rimandi, quasi “chiamati” con nome e cognome, rievocati e rivisitati con amorevole e deferente omaggio per uno spirito di cui l’autore si sente come una sorta di reincarnazione, un “apostolo” di “quella” parola, di “quella” poetica.
Le fasi che contraddistinguono la struttura della silloge prendono l’avvio col il volo dalla natìa Bagnolo di Recanati «oltre gli Appennini verso Roma l’infinito» (Nel mio cuore l’amore); quindi, dopo l’entusiastica parentesi del fervore amoroso, il Nostro subisce la progressiva inarrestabile “deriva” verso il disincanto, la disillusione, il tormento, per finire nella rassegnazione e nella rsa, ma con improvvise fiammate di rivolta. Si profila, così, una exit-strategy dall’aggrovigliata fatica del vivere attraverso un recupero di luoghi, degli affetti, del tempo perduto; luoghi e affetti e tempo rivisitati in una luce nuova, la luce del rimpianto e della memoria, il ritorno alle origini, alla buona terra, alle “colline di Recanati”, ai “sodi” della contrada Bagnolo di Recanati, dove lo «tabaccolo e il nonno vergaro», insieme all’ “imberbe” nipote, perpetuavano la faticosa civiltà contadina col duro faticoso lavoro de campi.
Dapprima, dunque, l’eros e lo stordimento sentimentale, la breve stagione del fuoco e della passione amorosa: «Sei come le colline delle Marche/…/ Sodi sono i tuoi seni,/ sinuose le tue forme» (- Senza titolo -) sembra di ritrovare, in questi versi, il Neruda del “Canto General”, che peralto il poeta omaggia inserendo, in esergo alla silloge, i versi del Canto XXIV).
E’ la fase vissuta con l’intensità e l’entusiasmo della vertigine erotica e dell’abandono; il sogno che dispiega tutta la sua malia, un campo appassionato e libero che cancella il dubbio, spegne l’inquietudine, accende voli: «Tu artefice del ritrovato canto./ Sei la musa » (My world, my love). Ma presto l’incantesimo svanisce, si compie il sortilegio, irrompono solitudine e silenzio: «Cessò improvviso l’ascolto del canto/ …/ / Tutto è ammutolito./ Mai più ascolterò il mare./ Ho fagocitato i sogni: / non ti rincorrerò/ avvedendomi pur loro traditori/ illudendo i giorni di gioventù» (Spento il canto). La pena del poeta non ha sponde, tutto diviene dolente memoria d’amore, rifiuto, felicità negata. Anche lui deve bere l’assenzio del tradimento e dell’abbandono, proprio come il “Genio” (una sorta di vite parallele) che, ne “La sera de dì di festa”, si macera al chiaro di luna per un amore che non ha corrispondenze.
Nella seconda fase, cadute le illusioni, il poeta si rifugia nella salvifica dimensione della fede e dell’Assoluto; qui, finalmente, il limite della grave disabilità dell’udito può essere azzerato. Per corrispondere col Padre non c’è bisogno dei segni e della gestualità delle mani. Finalmente il poeta può interrogare, chiedere, comunicare, rispondere, stabilire un rapporto “alla pari”, liberato del limite che così drammaticamente ha segnato la distanza tra lui e la società, spesso indifferente, o addirittura ostile e chiusa alla sua richiesta di “ascolto” non solo per sé, ma soprattutto per coloro i quali questo limite rappresenta una barriera insormontabile: « Sapevo che sarebbero scese le tenebre/ dei giorni e della vita (…)/ … / Arrivato il tempo della resa. / Le mani immote ai segni. / L’uomo coraggioso di me/ non più naviga quiete acque./ Elevo il grido di dolore, Padre/ perché rinnovi la promessa di fede» (Sostentamento di fede). Si tratta di una dimensione che comporta una ricerca paziente e sofferta, con la consapevolezza di avere accumuato un debito pesante come “peccatore incallito”, ma che non dispera: «Quando arriverà l’ora, Padre/ saprò staccarmi dai limiti;// non negarmi un cantuccio di cielo» (Preghiera di misericordia).
Ma talvolta il peso della solitudine e dell’abbandono è così insopportabile che la richiesta di comprensione e di perdono cede il passo alla rivendicazione e alla rivolta, tanto da sfiorare il limite del sacrilegio e della blasfemia: «Nel mio esistere a volte sono così solo che/ la stessa solitudine impaura (…)/ / …;/ solo col bagliore di lacrime/ che scorrono sulle gote per gli errori/ accumulati e i no ricevuti// pure da te Signore» (Solitudine). Ma la solitudine compagna di tante battaglie vinte, è stata anche lei tradita dalla leggerezza e dalla presunzione del poeta, «sciocco farfallone incosciente./ Giusto il tuo abbandono./ L’inferno si sconta in vita.» L’inferno in vita. Il rinvio al celebre verso di Ungaretti, “la morte si sconta vivendo”, rappresenta l’omaggio deferente e riconoscente ad un poeta che ha segnato il Novecento col suo impegno poetico per un’umanità liberta dalla violenza e dalla guerra).
Nella terza fase della silloge, “Memorandum di luoghi e di persone”, Renato Pigliacampo compie il rito del ritorno, un “Nostos” in cui rivivono gli affetti familiari, il canto per una terra amata oltre ogni immaginazione, «Luogo d’infanzia mio proprio -,/ vitale e caro; elevando gli occhi/ il cuore ammaliato di te./ Chi sei?//» (Le Marche al plurale regione/ ch’espande miei proibiti sogni/ (…)// A te mi dono perché tutto è qui;/ fuggiasco mai, restato all’Avemaria» (Con delicatezza messo in eterno sonno). E’ questa la confessione di un amore sconfinato e di un sacro rispetto per il luogo in cui il poeta ha piantato le radici dell’anima, il “Topos” per eccellenza, punto definitivo di approdo, che restituisce la serenità tanto cercata nel suo peregrinare oltre quelle contrade che conservano le memorie più care, i segreti e le epifanie dell’infanzia. Qui il poeta esprime chiara la speranza di ritrovare pace e serenità: «La solitudine mi sarà meno penosa/ dormendo nel solco già dissodato» negli indementicati anni della fanciullezza insieme alle figure dello zio e del nonno, custode amorevoli di quel nipote “imberbe” che con loro santificava il lavoro dei campi. Netta esplode anche la rivendicazione di un’appartenenza e di un possesso di cui altri vorrebbero privarlo, «Già di me hanno sentenziato/ lo sfratto dal borgo selvaggio di mare;/ sulla carta traccio indelebile messaggio/ per i figli e nipoti generazioni future» (ibid.)
Il cerchio dunque si chiude, il viaggio volge al termine, ma non si arrende il poeta, che ancora conduce con determinazione la sua lotta in favore dei compagni a lui accomunati da una drammatica condizione esistenziale. Ancora è vivo il martirio per un destino avvero: «E’ stato difficile girovagare/ per la penisola con questo Silenzio./ Implosive grida per l’anima assetata», e ancora senza risposta è la domanda relativa al mistero, al senso dl vivere, al fine dell’umana avventura: «Corpo, siamo passati./ Geo ci assista per l’eternità/ nel groviglio metamorfico venire/ forse ancora in questa contrada?» (Preghiera per Geo).
Sembra l’abbandono di ogni illusione, la consapevolezza di una solitudine cosmica che non riceve segnali, che non trovo ascolto non solo presso gli umani, ma neppure preso il Verbum. Nel consuntivo finale prevale un disperato sconforto, l’ironica amarezza per l’oblio incomprensibile, quasi un ostracismo, cui lo condanna la “sua” terra: «Non c’è più nessuno a cercarmi/ … / scordato dalla mia Porto dopo il guaio/ cui per vent’anni ho donato il Canto./ Gente comune, d’idiomatico linguaggio/ ho sollevato all’attenzione d’Italia./ Solo ora piegato a guardare le onde/ scopro che la vita discende al fine» (L’ultimo giro).
Ancora e sempre il silenzio, dunque, “risponde” al poeta, certifica la fine delle illusioni, marca la distanza siderale tra la realtà e il sogno, cala definitivamente il sipario su ogni spiraglio di speranza e di luce: «L’albero di ami senza vento/ su foglie essiccate nel muto orto/ stasera chiude la storia.» (L’albero di rami senza vento).
E’ resa totale? Sembra di sì. Ne prendiamo atto, anche se sappiamo che la tenacia di Renato Pigliacampo ha risorse inesaudibili. Siamo certi che l’orgoglioso, indomabile, camusiano “Uomo in rivolta” che alberga in lui troverà ancora il coraggio e la forza per tornare (proprio lui che la natura ha beffardamente privato del suono e della musica) a “gridare” la parola, ad indicare la rotta, a trovare, per mezzo di un poièn luminoso, le risposte a lungo cercate e ad esorcizzare il silenzio.
Umberto Vicaretti, vincitore del XXII Premio di poesia “Città di Porto Recanati”, recensione del volume, L’albero di rami senza vento, Luco dei Marsi, L’Aquila.