Incapacità di parlare al sordo

Sono pochissimi coloro che, rivolgendosi al sordo, hanno idea «come parlare», non mi riferisco alla modalità di comunicazione (articolazione della parola, attenzione ai vari accorgimenti: illuminazione delle labbra e del volto di chi parla, velocità del parlare, ecc.), ma faccio riferimento all’intelligibilità del parlare, il mondo del percepibile (del Silenzio). L’udente pensa verbalmente, si accomoda la parola nel momento che la pronuncia, sa giocare la carta del parlare allorché ascolta/ode l’interlocutore. Ho studiato i processi di apprendimento visivo-cinestetico. E’ arduo che la persona udente possa pensare visivamente, sebbene le relazioni di oggi sono sovrabbondanti di iconicità. Tra  i due processi, di percezione acustica e visiva, c’è una barriera di ignoranza. Il sordo è convinto che «l’udente», come lo indica, non lo capisca. Idea più accentuata nei sordi  bilingui segnanti, cioè che hanno  strutturato la lingua dei segni e utilizzano la lingua verbale come seconda lingua. Costoro affermano di possedere una propria identità linguistica e culturale. Ammettono: «Noi non siamo handicappati» (sic). Di fatto amano e vivono le interrelazioni secondo i processi psicocognitivi e linguistici visuo-cinestetici. Sono semplicemente persone disabili della/nella modalità percettiva acustica-verbale. Se in un’assemblea o convegno è presente una buona interprete di LIS (nel nostro caso italiano) possono essere attivi secondo le loro capacità culturali e professionali. I contenuti sono appresi su un canale differente. Confesso di concordare con questa filosofia. I sordi possono essere ritenuti di viivere nel Pianeta del Silenzio lungo una direttiva di cultura e di lingua differenti (per natura). Il discorso, lo comprendo, si sposta sull’antropologia. Anche questo da me  è stato approfondito. Non abbastanza come Amir Zuccalà, uno degli antropologi udenti italian che studiano i sordi (v. a cura di Amir Zuccalà, Cultura del gesto e cultura della parola. Viaggio antropologico nel mondo dei sordi,  Meltemi, Roma 1997). Qualcuno idenifica ciò in una «cultura sorda», che è - notate - tout court proprio un modo di vivere, di pensare e di inerrelazionare. Noi dunque siamo «società»; forse è meglio specificare «comunità», di fatto cultura e lingua. La verità è che non studiamo a sufficienza questa comunità invisibile. Sembra ne abbiamo timore, soggezione di scoprire qualcosa. Ora ho capito cosa temono gli udenti: la propria ignoranza; senza la ’stampella’ dell’udito, salvagente da utilizzare nel momento opportuno, per non  sprofondare.

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