MUTA ELOQUENZA

Spesso capita a scuola che scolari o studenti si suggeriscono durante le interrogzioni - con gesti manualii e/o labiobuccali, per il fine di rispondere a domande del docente - nomi, città, date o quanto altro in quel momentoo non ricordano.  Indico questo agire come “ginnastica cognitiva delle dita”. E’ raro trovare uno studente che non abbia sperimentato l’esperienza. G. Bonifacio, ne L’arte dei cenni, Vicenza 1616, afferma che il parlare in silenzio è il più nobile modo di farsi intendere,  lamentando che non gli risultava che qualcuno avesse trattato l’argomento, «benché gli antichi avessero più maniere di manifestare occultamente, e furtivamente i loro pensieri… ». Platone afferma che Socrate amava dialogare con i discepoli che la vista e l’udito hanno qualche verità per gli uomini perché - come ammettono i poeti - raramente siamo in grado di vedere e di udire di preciso. Ora la “muta eloquentia” può riferirsi alla dattilologia, dal greco dactilos (dito) e logos (parola): e consiste nell’abilità di riprodurre, con le dita della mano, le lettere dell’alfabeto.  La dattilologia non è na lingua, bade bene, ma un supporto, possiamo affermare un “metodo”. E’ naturale che ciascuno di noi, come afferma Bernard Mottez, preferisca «comunicare con la lingua più congeniale piuttosto con quella degli altri. Ci si sente meno handicappati. Ciò è ancora più vero per i sordi. Sebbene siano diverse le lingue parlate hanno in comune fra di loro l’utilizzi di suoni. Esse sono  fatte per e ssere udite. le differenti lingue dei segni sono eclusivamente visive. Tutto ciò che è emesso è integralmente percepito.» (cfr Mottez B., Paris 1981).   Il sordo è ancora più svantaggiato non poter utilizzare una lingua non sua. Ce ne avvediamo nell’imposizione della lingua verbale, che è sempre uno sforzo, non compensato dalla gratificazione di udirsi la pronuuncia corretta. Comunicare con i segni vocali è come tentare di mettersi un vestito senza individuarne la taglia. Un analfabeta che si appropria di un idioma parlato da poche migliaia di persone potrà essere capito e/o interpretato da chi lo ascolta rispetto al sordo di nascita il quale, pur  parlando a voce, potrà risultare monotono e «senza anima nell’espressività verbale». Perchè i codici sono memorizzati per labiolettura (movimenti labiali) o la scrittura, il tutto per  via del canale visivo, vale a dire carenti dell’imprinting emozionale. Quando qualche udente afferma, nei confronti di qualche sordo, che “sta parlando come un libro stampato”, dimostra scarse conoscenze psicolinguistiche sui sordi, non considerando che è la scrittura la loro fonte principale di memorizzazione delle parole. La letttura è l’esercizio principale per accedere all’altra lingua perché favorirà l’apprendimento dei vocaboli con cui il sordo “nutre” il dialogo quando parla con gli udenti. Ma c’è poca solidarietà nei suoi confronti nello sforzo quotidiano di resistere linguisticamente  in un mondo che lo percepisce, nell’utilizzazione della lingua, come se fosse straniero. Non viene compreso nella difficoltà di modellarsi  sul codice verbale di maggioranza perché è, appunto, “sordo” nell’accento e nell’intelligibilità del codice verbale.

La ‘forza’ di una lingua è di solito mnifestata dal numero delle persone che la parlano, dai gruppi culturali e scienfiici che la adottano negli scambi. Per secoli - nel nostro caso - la comunità udente ha sopraffatto l’evoluzione della lingua dei segni.  Le ultime ricerche, condotte anche da sodi, hanno individuato che l’ostracismo alla lingua dei segni che, per oltre un secolo e mezzo lasciate fuori dalle aule scolastiche, è dipeso da due motivi: l’uno dalle difficoltà dei docenti udenti di modificare il pensiero radicale di percepire ed elaborare la cultura su presupposti verbali, non riuscendo di fatto a trovare un procedimento didattico e una metodologia fondato su un processo psicovisivo; l’altro è il timore che la diffusione dell’informazione e della cultura in lingua dei segni provocherebbe, come in tutte le comunità, la selezione di leaders tra gli stessi sordi, sospingendoli ad azioni critiche verso i dirigenti delle Istituzioni e degli stessi dirigenti udenti. Non favorirli nella loro lingua dei segni - studiata come lingua! - vuol dire bloccarli nell’evoluzione di una cultura propria, non considerandoli  «come comunità», imponendo loro il coattismo linguistico, ossia la lingua verbale della maggioranza! Questo è stato molto bene espresso da H. Lane (cfr H. Lane, La chiave è la lingua, in «Il Sordudente», n. 5/6, 1989, pp. 1-3.

Il rifiuto della lingua dei segni è sociale e sociologico e andrà avanti sino a quando i sordi dei Paesi più avanzati non prenderanno in mano il proprio destino  decidendo come voler essere.

Nel testo (cfr R. Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando, Roma 2009.) abbiamo studiato  e comparato lo sviluppo della lingua verbale e la lingua dei segni, rispettivamente nel bambino udente e nel bambino sordo. Ma quando si parla di lingua dei segni ai genitori udenti è come dir loro di confemare la sordità nel figlio. Parlare di una lingua che si evolve  per mezzo dei processi psicocognitivi visivi e cinestetici, è gettarli nel panico, letteralmente. A parte che non ne hanno esperienza nei processi di sviluppo, con difficoltà di frequentare corsi specializzati e confrontarsi con soggetti sordi di buona cultura linguistica sia verbale che segnica, vivono nel dubbio d’essere genitori capaci.

Oggi la scolarità degli ipoacusici e dei sordi avviene nella scuola di tutti «insieme ai coetanei». E’ un bene sul piano dei diritti sanciti dalla Costituzione. Ma la professionalità dei docenti, necessaria per l’istruzione di  questi scolari o/e studenti, dove è? Io credo sia restata nell’antesala del Ministro di turno (cfr Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando, Roma 2006. C’è un vuoto di formazione e di professionalità, nel nostro Paese, che allarma perché di pretende il bambino, con problema d’udito, di ascoltare anche riicorrrendo all’ I.C. che, pur essendo utile talvolta,  raramente permetterà di ascoltare con la tonalità che è caratteristica di un udito sano.

Allora che facciamo del bambino sordo che ogni giorno cerca la sua lingua non sapendo quale essa sia? Il bambino che ode sa di appartenere alla comunità del «bagno sonoro» (J. Piaget), sperimentato nell’adattamento della forma mentis già prima di nascere nel liquido amniotico. E il piccolo sordo? Nei primi anni  di vita il piccolo è bombardato di seguire un programma di (ri)abilitazione, per lo più proposto da personale che  pretende la guarigione per un tornaconto anche economico: le professioni, gli ordini professionali hanno questo obiettivo. Per  questo motivo, sin dall’inizio, si evita che il bambino sordo apprenda la lingua dei segni. La madre  si solito e i genitori e familiri non conoscono questa lingua visuomanuale e, di fatto, la nega. Così negano una cultura, un processo psicocognitivo  di  nuovi orizzonti che nulla hanno di relativo, ma un’ampia chance di accedere  a quello status psicofisico fondamentale per esser contentento di sé e accettarsi(Cfr  R. Pigliacampo, 2009).

Ogni sordo cerca la sua lingua. Dov’è? Egli letteralmente la “vede” nelle mani dell’interlocutore. B. Mottez (1981) afferma che, i sordi, quando comunicano a segni fra di loro ad esere “handicapati” sono gli udenti.

La domanda che ci poniamo è: la dattilologia è utile al bambino per comunicare (a parte la LIS)?

La dattilologia  (da dattilo, dito e logia discorso, studio) su alcuni  vocabolari (per es. il Palazzi edizione 1939) è descritta «arte di conversare con le dita, mediante segni convenzionali corrispondenti alle lettere dell’alfabeto». L’estensore della ‘voce’ non era un esperto. Non è «arte di conversare con le dita», bensì un processo di apprendiento che implica costanza e maestria. Le dita della mano o delle mani originano la configurazione. Facciamo una comparazione esplicita: una consonante  e una vocale  orignano un fonema; due dita o più dta posizionate in un certo modo compongono un cisema o cinesema. Una lettera  del nostro albabero, come la C, può essere formata con una o più dita, o solamente con l’indice e il pollice. E’ evidente che le configurazioni composte con quantità di dita differenti,  cambiando  il luogo  originano differenti movimenti e, di fatto,  diversi significati.

E poi, mentre si ’segna’, è  bene coordinare il segno con l’espressività del volto. Un ottimo segnante è pure un ottimo attore. Un esempio: «vai», «vai?», «vai!». Qui si rileva  fondamentale l’espresività per  la domanda o l’ordine. Il docente specializzato favorirà la strutturazione dell’acquisizione della lingua utilizzando anche la dattilologia. (cfr R. Pigliacampo, op. cit.): Bisogna chiarire ai profani che la dattilologia non ha  una grammatica, è solo  il tentativo digitale di imitare le lettere dell’albafeto per rendere esplicito un nome o ciò che vogliamo che l’interlocutore conosca graficamente.

Evidente che la dattilologia conduce l’attenzione sulla mano. Leroi-Gourhan, (pp. 45-47, 1997) fa notare che la mano è molto efficiente, segue i comandi cerebrali disposti dall’emisfero destro, sede della motilità, mentre l’emisfero sinistro identifica il «segno» da scegliere sia verbale che motorio per esprimere il concetto o l’idea. Nel piccolo sordo e/o ipoacusico è male bloccare o frenare l’interazione cervello-mano perché inibirà i procesi dello sviluppo cognitivo. Il neuropsicologo  Oliver Sacks (1990) ha messo in evidenza l’errore di  insegnanti e logopedisti quando sconsigliano o impediscono al bambino l’apprendimento della lingua di segni o la frequentazione dei simili. O. Sacks (op. cit. 1990) ammette che la relazione mano—cervello induce ad analizzare la relazione comunicativa del bambino con l’adulto su  aspetti antropologici e non solo psicolinguistici, enza questo approfondimento ci sarà difficile capire che «c’è» nei segni, nella motilità rapida delle mani. Abbiamo  scritto che la mano è il primo strumento di relazione, il medium con l’anima, il ponte reale con l’interlocutore: e grazie allla sua specializzazione e alla capacità di compiere migliaia di movimenti diventa essa sessa privilegiata dal sistema nervoso centrale,  dunque dalla mente creatrice. (Cfr Parole nel movimento, cap. V).

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