Hans G. Furth (Parte I)
Pensiero senza linguaggio. Implicazioni psicologiche della sordità è stato pubblicato in Italia all’inizio degli anni Settanta. Non aveva presentazione, riportava una brev breve nota redazionale anonima. Accolto con scietticismo, non solo dalla gran parte delle poche cattedre di psicologia specializzata (dovrà ancora apparire), ma anche dai docenti docenti dei sordi, che si lamentavano della chiusura delle “scuole speciali”, sotto la spinta della riforma della ” sanitàd e della “scuola”. Era l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Le «scuole speciali» avevano addosso le contumelie delle forze politiche cosiddette di Sinistra, volendone la chiusura, i “diversi” dovevano essere persone più oggetti. Lo psichiatra Franco Basaglia aveva, a Trieste, liberato i «matti» dai manicomi. Queste iniziative, esterne all’ambiente della sordità e/o dei sordi, avevano indotto a riflettere sui sordi: malati o persone che dovevano essere considerate una doviziosità purché, come affermava qualche pedagogista isolato, fossero forniti educatori specializzati, specializzazione che induceva il Ministero dell’Istruzione ad organizzare corsi di formazione idonei per tutti gli ordini di scuola…. Furth, tra i primi psicologi, annotava che i sordi erano esclusi dalla società perché - la stessa - li obbligava a condividere uno status non conforme alla condizione propria, vale a dire dei processi percettivi. Sino alla fine degli anni Sessanta, in Italia, dominava ancora il «metodo orale», proposto da Mons. Giulio Tarra, nel famoso congresso mondiale di Milano del 1880. Tarra e i suoi seguaci avevano disposto: «insegnare ai sordi(muti) la parola con la parola». Si tentava di rendere il bambino sordo come il bambino udente: parlante, sfociare la lingua verbale. Così, una volta cresciuto, i ministri del culto cattolico (i sacerdoti) ascoltando i loro peccati potevano assolverli (…). Tuttavia il piccolo udente non poteva percorrere il processo di sviluppo linguistico che caratterizzail coetaneo udente nel full immersion. Era come buttare in acqua il bambino e dirle: nuota senza che sperimentasse tutti gli sviluppi della lingua a livello naturale. Vero che il metodo orale aveva l’obiettivo di favorire una migliore articolazione della parola, spesso nozionistica nei sordi, senza considerare i processi cognitivi, il focus dell’apprendimento. Furth è il primo psicologo moderno che dà signità scientifica ai processi psicocognitivi generati dalla percezione visuomanuale. William Stokoe è il linguista della semiotica segnica alla stregua degli studi di (de) Saussure che distingue la differenziazione fra “langue” e “parole”. Gli studi di Furth sono molto importanti nella comprensione del pensiero del sordo: e lo comprendiamo, oggi, nella ricerca di Giacomo Rizzolatti dei neuroni specchio: il legame tra osservazione-occhio-imitazione, realtà ben evidente nell’area cerebrale cinestetica. Prima degli studi di Furth c’era un’idea confusa sul cervello del sordo anche perché lo si obbligava ad intraprendere il processo di sviluppo linguistico sul verbum; con lo psicologo statunitense il concetto scaturice dall’interazione sul/col corpo e, come dice James, sono entità soggettive separate perché motivate dal ‘bisogno’ di comunicare, un andare/venire fra l’ego e l’esterno (…). Il sordo non è più frenato dall’incapacità o incerta pronuncia del codice verbale, ma si concepisce come soggetto che genera lui stesso la «parola», quel “senza linguaggio” che è più che linguaggio. (cfr. Renato Pigliacampo, 1983, 2005, 2008). Furth pertanto sposta lo studio sulla percezione e annuncia il paradosso: «Una persona pervepisce una percezione» (tr. it., 1971, p. 39), che Furth indica così: «Una persona pensa un concetto.» Questa riflessione apre la visione di un orizzonte sterminato sulla ricerca del pensiero e del linguaggio del sordo o, se vogliamo spostarci sugli studi neurologici d’oggi, su tutte le aree del cervallo deputate alla percezioni. Perciò il “là fuori”, vale a dire l’apporto dell’ascolto, diviene un’attenzione di “qua dentro”: è la neuropsicologia evoluzionistica, sospingendoci a cmprendere che la cognizione del sordo è più originale rispetto all’udente. Cosicché il termine «concetto», nel sordo, diventa un modus operanti mentale intrensico di sviluppare il pensiero visivo. Come giunge Furth a valutare questa differenziazione di pensiero? Si rifa agli studi di J. Piaget che dice «noi siamo parola rappresentazione in due sensi diveri», identificando che «rappresentazione è identica a pensiero», vale a dire su un sistema di concetti o schede mentali; e di fatto il ricordo-immagine ci muove per l’evocazione simbolica di ciò che ora è assente, ma presente nella nostra forma ments. Ciò è fondamentale per capire il pensiero del bambino sordo, privato dalla percezione sonoroverbale. Il piccolo sordo si rappresenta le categorie linguitiche in na modalità speciale, possiamo affermar propria. Come? Furth fa esempi: Tom ha un cappotto; Tom ha una malattia; Tom ha un pensiero. La voce verbale «ha» rappresenta, in tutti e tre i casi, categorie della vita reale simili. Le azioni nel linguaggio dei segni sono differenti per esprimere/espletare un processo di comunicazione. Ecco che Furth afferma con sicurezza che «un simbolo è oggettivamente distinto dal pensiero», pertanto è “un evento” che, il sordo, è in grado di rendere più esplicito perchè ne pensa l’azione nel momento in cui lo comunica nella motilità, che ritiene nell’immagine mentale cinestetica. Come il disegnatore che si giova della mnemesi visiva: illustra, disegna, persegue linee e prospettive ‘vedendole’ nell propria mente. Furth porta l’attenzione sui contenuti linguistici nel momento in cui sono utilizzati (contemporaneità linguistica). Perché il piccolo sordo o ipoacusico utilizzi cognitivamente il codice verbale appreso deve collegarsi, non solo in termini biologici, funzionali della riproduzione del codice, nel nostro caso sonoroverbale, ma deve avere quella connotazione cognitiva di saperlo utilizzare nel contesto relazionale. I sordi non vengono adeguati al “sapere”. Un esempio, ammette Furth, se dico: «La pianta sa dove cercare l’acqua» è evidente che l’uso della parola «sa» è metaforico. Allora la questione è esplicita: allenare il piccolo alla ripetitività acognitiva o presisporlo nei suoi reali processi psicolinguistici secondo l’esperienza visuomanuale?