Hanno scritto su Renato Pigliacampo

«… la sordità non è un ostacolo ad una persona dotata di viva intelligenza, anzi dotata d’ingegno, di esprimersi artisticamente in prosa e in poesia.» (Diego Valeri, Venezia 23 giugno 1973, lettera all’autore).

«Lei è scrittore, è poeta, e il suo difetto fisico, invece di precuderle certi strumenti espressivi, glieli migliora o comunque glieli caratterizza sia tecnicamente che umanamente… » (Cesare Zavattini, Roma 6 luglio 1978, lettera all’autore).

Alcuni interventi di critica sulle Opere edite.

Per Dal Silenzio, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1983.

«Dal nascondiglio della memoria le figure, a volte parvenze, a volte fantasmi, accompagnano la vita di adulto, la sua odissea scandita sul modello del dolore ungarettiano dei fiumi, l’amara condizioe, il suo nomadismo fra treni, stazioni deserte, solitarie attese ingannate da allucinazioni (…). Il furore per comunicare con quella parola che non può ascoltare e che vorrebbe esorcizzare… C’è il filone del sociale, delle sue origini, delle scelte ideologiche che poi defineranno la sua filosofia nei rapporti con le Istituzioni, la politica, il volere o l’attesa che gli altri facciano ciò che lui non può fare: l’impossibilità di intervento nel mondo delle voci, il dialogo… » (Luigi Martellini, docente di Letteratura moderna e contemporanea all’Università della Tuscia, Viterbo 1983).

«Nella poesia di Renato Pigliacampo c’è un cammino interno: una luce del silenzio che avanza e conquista il poeta: è una meraviglia di poesia che cerca di possedere il poeta (…). C’è poi una continua eco di denuncia. Ed è allora che la poesia di Renato Pigliacampo diventa un intenso canto di umanità, desiderio civile, ricerca e presa di coscienza: un continuo processo di liberazione.» (Gastone Mosci, Università di Urbino, 1983).

«C’è un fervore di sontuose invenzioni e visioni, che testimoniano una vocazione autentica e originale… Mi piace la capacità, che mostra, di giocare col verso, sul linguaggio, sulla creazione di miti: (…) canta di una poesia come autentica alternativa al reale e al fenomenico.» (Giorgio Barbèri Squarotti, Università di Torino, 1984).

«… la parola negata si è fatta segno, diventando così il suo più efficace mezzo di comunicaione. E’ quasi d’obbligo il richiamo a Beethoven, gigante in un mondo di suoni dal quale la natura lo aveva scacciato. Come Beethoven con la scrittura musicale, Pigliacampo evade dal lager del silenzio con la scrittura poetica.» (Serena Caramitti, Roma 1985).

Per l’opera Radice dei giorni, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986.

«Meraviglia, stupisce, accende la fantasia, esalta la nostra sensibilità, ci fa sentire rami secchi la poesia di Renato Pigliacampo, non solo per i temi profondi di significati ma per l’amalgama armonioso-ribelle della scrittura del suo mondo lirico. (…). Le parole non udite diventano veri, partitura musicale di un poetare puro per una pura coscienza… » (Nora Rosanigo, Presentazione della silloge, 1986).

«Piace in Renato Pigliacampo anche un tono di fiaba che rimanda ad un altro marchigiano, Ugo Betti; e di Betti il Nostro presenta anche il tema dell’innocenza; infatti, quali petali bianchi si fanno certe sue parole,  certi versi! (…) La sua voce è sempre personale e pertanto convincente, con una collocazione dell’immagine fresca e opportuna stemprando la pena del vivere nel capire soprattutto la bellezza della terra marchigiana, scoperta goduta evocata da un giovane che ha potuto vedere quanto cantando il suol si disacerba (…).» (Rosa Berti Sabbieti, Macerata 1986).

«… A questo silenzio del mondo il poeta oppone un suo segreto linguaggio, quello della poesia, che sarebbe straniero se non fosse filtrato dai codici della tradizione. Come l’idillio rappresenta il desiderio di ritornare all’infanzia, nostos contraddetto  dalla ragione e quindi  ridotto ad essa, così anche l’Oceano subisce lo stesso processo di ridimensionamento: basta contare il tasso delle parole-tema quali ‘gocce’ e ‘lacrime’. E’ come attraverso la lingua della poesia la Natura fosse diventata corpo e carne dell’uomo.» (Remo Pagnanelli, Macerata 1986).

«Poesia del silenzio che coglie il suo fondamento e la sua Origine nella solitudine perfetta che la parola vive nel suo corpo. Non solo e non già nel vincolo dell’impossibile fonazione, ma più esistenzialmente nella coscienza del limite dell’uomo, atterrito dalla brutalità del mondo e della Storia.» (Guido Garufi, Macerata 1986).

 «La grazia della poesia di Renato Pigliacampo sta, in gran parte, nelle suggestioni delle immagini, nel lieve uso che ne fa, discreto e preciso, il poeta, quando si piega a contrappuntare i sentimenti con l’inusualità delle figure, con l’eccentricità delle vissioni o con il segreto di una miscelatura molto garbata, ma nello stesso tempo molto essenziale. (…) ma la parola in Pigliacampo ha un’altra funzione, ben più profonda che non quella radicale di ‘fondare’ una realtà viva , oltre alla concretezza del ondo; funzione che è quella di  predisporre al discorso l’anima di ‘un altro’, quel sé stesso che non ode, che non sa ascoltare il mondo, che non vuole conoscere il mondo del rumore, del frastuono, del nulla: ed è qui che si risolve allora la forma, la creazione di una forma, i  fasti di una visione del mondo che è gentile, indifferibile.» (Giancarlo Prandini, Cremona 1986).

«Non è di tutti i giorni trovare un poeta così umano, vero e profondo. (…) Il silenzio è verbo, il senso della frase poetica, del sintagma, fiorisce amara, non disperata, il pessimismo leopardiano stempera in dolcezza. (…) linnguaggio personale, moderno, umanissimo, che scava anima e mente in una simbiosi perfetta. E spazia oltre il bene e il male del vivere.» (Lea Ferranti, Ascoli Piceno 1986)

«… Quel che affascina, nella lettura,  è un continuo riferimento ai luoghi natii, con precise ubicazioni e indicazioni a posti che durante il perigrinare forzoso dei suoi anni giovanili ritornavano alla memoria, prendevano corpo, mentre le azioni, rifluendo, si andavano sistemando nel corpo della poetica che Pigliacampo elaborava. (…) Quel che meraviglia invece, pur privato dell’esperienza onomatopeica, è la capacità di una gamma di variazoni tali da rendere fascinosa la lettura anche fonetica del suo lavoro sempre ardito (…). Renato Pigliacampo, uomo, studioso che si interroga e costringe ad interrogarci, perché esce dai possibili compatimenti e scava, sa elaborare presenza e arcano, robusta realtà e ricreazione mitica. Non è questo un legame tra uomo e poesia?» (Giancarlo Montanari, in Quinta Generazione, n. 159/160, Forlì 1987)

«…I testi poetici di Renato Pigliacampo emano un affrato di miracoloso: essi emorgono allo splendore di luce universale da un compatto mare di silenzio.  (…) In lui la poesia fiorisce, cresce e si consolida in una struttura di taciuti e sofferti interrogativi: e dal profondo dell’io viene formulata sulla pagina in un costante colloqquio con se stesso, anche quando si figura la presenza dell’altro… E nelle altezze silenziose, spogliate da ogni fisico peso, nascono nella limpida mente del poeta versi che anno la forza di assioma: “Vivere è sapersi accettare”. La verità di questo verso non riguarda soltanto chi lo scrive, ma assume valore univerale, perché la saggezza del vivere sta proprio nel sapersi comprendere e di volta in volta non disperare delle proprie condizioni.» (Vincenzo Rossi, in Quinta Generazione, n. 159/160, Forlì 1987)

Per la raccolta Adobe, Nuova Compagnia  Editrice,  Forlì 1990.

«Pigliacampo non dimentica che egli potrebbe essere definito il muro che si fa voce; se non fosse stato colpito tanto amaramente dall’invalidità non avrebbe scritto un libro tanto sofferto, e quindi convincente, non sarebbe forse arrivato alla televisione di stato nella sua mirabile opera di educatore degli audiolesi, non avrebbe scritto opere serie a carattere socio-psicologico e semiotico, non sarebbe una voce di poesia, non solo tra quelle più valide nella sua terra, le Marche, ma di più ampia risonanza. (…) In Adobe è mirabile la freschezza dell’ispirazione, la misura del racconto, la dolcezza di tanti stati d’animo, la bellezza di vari paesaggi, l’energia della scrittura in una lingua ‘d’umiltà e d’amore’. » (Rosa Berti Sabbieti , in Tribuna Letteraria, Abano terme 1991).

� «Una poesia che continuamente trascorre dalla reltà al mito, della prima traendo le occasioni, l’inquieta problematica esistenziale o denuncia sociale (la sordità verso chi soffre per una colpa non sua), del secondo creando figurazioni che hanno come costante il paesaggio marchigiano con le ondulate colline e il mare, orizzonte in cui l’anima ama smarrirsi: il tutto in uno stile maturo, controllato nella modernità lessicale, personalissimo e accattivante.» (Silvano Demarchi, Bolzano 1791)

«…  Ma per il resto, il Nuovo di Recanati, è esclusivamente se stesso, poeta di un silenzio trovato, subìto, forzatamente accettato ma che non ha dissolto né diminuita quella vena innata che tanto regala e tanto diffonde… » (Renato Leti, in Centritalia, n. 22, Rieti 1990)

«…Il senso vero di questa poesia non è affatto la lotta, ma la nostalgia (sentimento patico formidabile, che riguarda cose che non si sono mai  possedute) per un mondo dove non è necessario riscattare, perché non si è rimasti feriti e non si è ferito nessuno. (…) il linguaggio è per scelta aspro, volutamente teso all’espressionismo delle idee e dei sentimenti, e allo stesso tempo alla resa gnomica di massime ferme, eticamente funzionali a sé e al resto degli uomini.» (Rossano Onano, in L’Indice dei libri, ottobre, Torino 1991)

«La poesia - perché si tratta di un testo polemico nel senso originale di polemos, cioè guerra: una personale guerriglia diremmo di Renato Pigliacampo che, per mezza vita, ha sofferto, contestato, lottato strenuamente per i diritti di chi, come lui, ha vissuto l’ingiustizia della società verbale, la violenza dell’altrui parola: lui, audioleso, con un mondo fatto di ipersensibilità, nella generale piccolezza di una realtà miserevole, ma perlopiù vacua); la polemica, si diceva, è una costante in Adobe, un continuo alimento, il fuoco di Erato che ama, ma non sempre è ricambiata. (…) Sono poesie manifesto, affreschi con sprazzi di luce terrestre e celesti ambizioni. Sono composizioni elaborate con un continuo rovello di spiegazione, mentre poi è nelle composizioni brevi, nella sintesi, che i risultati si snodano sul terreno di puro lirismo cosmico.» (Giancarlo Montanari, nella Prefazione, Modena 1990)

«Un grande poeta che, per certi versi, fa pensare al suo concittadino, Leopardi. Egli ha un suo linguaggio: abolisce gli articoli, l’immagine è più viva nel ricordo del tempo udente… » (Giorgio Luti, Università di Firenze, 1991)

«… riconosco nella poesia di Renato Pigliacampo un lirismo sempre nuovo, riconoscibile nel forte presentimento di vigila continua nella vicenda umana. Un lirismo che è, nello stesso tempo, qualità ed esempio, forza e novità dell’animo che si contrappongono alla non ancora risolta definitività del testo. D’altronde DEVE essere così: la poesia tutta, ed ovviamente quella di Pigliacampo, deve essere laboratorio aperto della coscienza e del sentimento del poeta, una sorta di work in progress lungo un viaggio di continua scoperta e di continua azione di squarcio sul reale. (…) Si intuisce benissimo, analizzando questa poesia, la tensione morale e stilistica entro cui essa si muove, l’avvio consapevole di un continuo e motivato processo di dissoluzione e rinnovamento della forma poetica, che culmina in esiti formali di linguaggio in forma di grido e di tormento. (…) Un accenno meritano le analogie di Pigliacampo ottenute con le preposizioni ‘a’ e ‘in’, preceduto dal verbo, al participio (…). Ben altre peculiarità si potrebbero rilevare nella tecnica del suo linguaggio poetico e tuttavia a noi interessa costatare che anche sul piano dello stile, come corrispettivo della loro inesausta tensione spirituale e morale, come il poeta approcci la metafora e il simbolo. (…) Altro aspetto dell’esperienza poetica di Pigliacampo è l’ideologia che lui mette in area di verifica in cui le ragioni in una crisi che lo nasconde come individualità artistica si fanno evidenti nella sottomissione dei nessi sintattici tradizionali all’urgenza dell’autoconfessione autografica e morale. (…)» (Leonardo Mancino, presetazione di Adobe nella sala della provincia di Macerata, 1990).

Per la raccolta Canto per Liopigama, CASISMA Edizioni, Porto Recanati 1995.

«… volume denso di autentica poesia è infatti il canto del poeta alla sua vita, canto che si snoda per molte pagine tra tormenti e ricordi, sentimenti e ripensamenti; in molteplici toni un canto melodioso, a volte sdegnato o deluso, a volte ridondante o accusatorio, talvolta nostalgico o senza rimpianti. (…). Renato Pigliacampo è un uomo che esce dalla massa, ne è situato non solo (per me) al vertice della categoria degli uomini eccellenti del nostro tempo.» (Rosa Rosanigo, Presidente nazionale dei medici scrittori, in La Serpe, n. 2, Roma 1992).

«…il significato del discorso poetico di Renato Pigliacampo prescinde dalle annotazioni autobiografiche e spazia in tutti i campi. Molto interessante è il collegamento con la situazione politica e soprattutto con l’amara analisi della democrazia, all’origine vista in dimensioni oleografiche (…)» (Luana De Luca, Torino 1996).

«La scrittura di Renato Pigliacampo, prima di essere letteratura, senz’altro è vita: la passione che lo anima non ha tempo né confini; il suono che risuona in ogni verso diventa memoria attuale; e il passato si fa prospettiva. (…) Dalla roccia dell’indifferenza che lo fa una sola cosa (ma dialettica) col popolo dei campi, s’alza un volto “disadattato” nella cultura contadina (almeno spontanea e genuina) come dentro la società complessa, che al sapore delle cose vere ha sostituito la parola ambigua capace solo di promettere per velare l’impotenza della politica e della scienza. (…) un impenitente creatore di segni, immerso nel mistero di sé, teso a cogliere la totalità del cavo della parola frammento, affranto dentro al limite, ma ribelle all’esilio, alla pregione amara dell’incomunicazione e perciò cresciuto uomo.» (Gian Mauro Maulo, “Il Silenzio e la Parola”, Presentazione, Macerata  1995).

� Per la raccolta Poema nimittaka per Y, Bastogi, Foggia 2001.

 «… Ciò che meraviglia nei versi non è tanto l’erotismo (…) ma il ricondurre il discorso poetico nella similitudine tra il corpo della donna e la terra madre, la terra natìa. Il linguaggio è perfettamente consono alla narrazione e, per raggiungere questo traguardo, Pigliacampo si serve di termini arabi, kamasutriani, o riempie copiosamente i versi con parole idiomatiche di ogni regione… E c’è pure da riscontrare un legame tra Pigliacampo e Leopardi ‘legato’ allo sguardo sul/del mondo circotante. Costui introduceva il “borgo selvaggio” come incipit per vagare “oltre la siepe”: e il genio di Recanati - e non a caso anch’egli utilizzava parole dell’idioma locale - apriva orizzonti trascendentali e spaziava dagli uomini antichi a quelli d’oggi; e il Nostro, per quanto riguarda questa raccolta, ha riflessioni amorose e seducenti mirando le colline… Pigliacampo è il poeta della natura, del corpo, delle allusioni metaforiche nelle quali segna il suo Silenzio, la sua solitudine, il suo amore, la sua ribellione e ‘protesta’ per una condizione di svantaggio. Egli ha taciuto e continua a tacere con la parola verbale, ma tutto di sé, soprattutto con lo sguardo e gli occhi interrogativi, induce a parlare, a vivere e a combattere… » (Pier Paolo Cantarini, nella Presentazione, Foggia 2001).

Per Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena 1999.

«… Ancora una volta il poeta di Porto Recanati stupisce per la ricchezza dei temi, per la forma poetica del suo linguaggio. Il poeta è un ribelle per natura, Pigliacampo lo è - oltre che per natura appunto - per le esigenze della sua condizione difficile. “Questa è la mia gente di silenzio./ Gente con me convissuta/in queste terre e isole d’acque immote,/nei luoghi di diritti violati;/ la bontà popolana ha donato/ uno scherno riso di risposta Dopo/” (Artefice del domani). Non è un’accusa perché l’autore non si abbassa  ad una sterile querimonia che finisce sempre per alimentare scontri tra istituzioni e fazioni partitiche per quel che non si è fatto o non si fa per la popolazione svantaggiata. La poesia di Pigliacampo è poesia universale perché è l’uomo in toto che si ribella, parla, soffre e spera. Appunto è proprio la speranza che nel Nostro non muore, è la speranza che diventa luce e guida del suo raccontare la vicenda umana. Piglicampo non si lamenta, egli ci obbliga a riflettere, ci porta di fronte ai fatti e ci obbliga -  accanto a lui -a divenire testimoni dell’azione e delle decisioni. Come se dicesse: Ecco tu combini questo, sei questo, imponi questo. Ci mette a nudo insomma. Bella questa poesia perché ti parla, ti scava dentro, ti illumina. Un vero poeta; c’è proprio tutto nel suo narrare: verso estetico, inimitabile capacità visiva che forgia le visioni dei luoghi, della gente di mare e di collina, dei boschi in metafore che restano impresse nella memoria (…)». (Ginevra Camoranesi, in Paginecontro, Rimini 1990).

«… In effetti una delle caratteristiche che tiene alto il tono poetico di Renato Pigliacampo è l’assoluta originalità del verso, tanto che certi nomi e luoghi, appaiono indicare un’esperienza di scrittura di preludio ad un discorso solitario ed umano di indubbio valore anche estetico.» (Ottaviano De Biase, Postfazione, San Lucia di Serino, luglio 2004).

�   I SOVRUMANI SILENZI DI RENATO PIGLIACAMPO.  «I ’sovrumani silenzi’ dell’indimenticato e indimenticabile L’Infinito di Giacomo Leopardi rappresentano lo sfondo, il paesaggio, l’habitat e, starei per dire, il liquido amniotico in cui prende corpo e vita, si nutre, fiorisce ed emerge a tutto tondo il poièn di Renato Pigliacampo ne L’albero di rami senza vento.

Del grande recanatese, cantore dell’anima e dell’impescrutabile parabola esistenziale, Pigliacampo idealmente raccoglie il testimone per farsi a sua volta, come l’inimitabile conterraneo, infaticabile e tenace cercatore di risposte atte a dare senso e misura al faticoso “mestiere” del vivere. Un’ideale staffetta, dunque, che dà continuità e ritmo al viaggio verso il centro dell’insondabile e del mistero. Certo, si tratta di una scommessa estrema, di una sfida che sembra (è?…) puro azzardo, un’impresa di strenua, finanche eroica battaglia, con preannunciato retrogusto di sconfitta. Sono numerosi e ricorrenti i motivi che rimandano all’autore dei “Canti”: oltre alla parola-simbolo di questa simbiosi, ovvero il “silenzio”, anche il “nulla eterno”, la morte, l’illusione, la luna, la solitudine, il mal d’amore, le promesse, la natura, il ricordo, il mistero, il disinganno, la speranza…  Si tratta, certo, di stilemi comuni dalla poesia di ogni luogo e di ogni tempo, ma nella poesia di Pigliacampo questi tratti distintivi vengono reiterati con precisi e intenzionali rimandi, quasi “chiamati” connome e cognome, rievocati e rivisitati con amorevole e deferentee omaggio per uno  spirito di cui l’autore si sente come una sorta di reincarnazione, un “apostolo” di “quella” parola, di “quella” poetica.

Le fasi che contraddistinguono la struttura della silloge prendono l’avvio col il volo dalla natìa Bagnolo di Recanati «oltre gli Appennini verso Roma l’infinito» (Nel mio cuore l’amore); quindi, dopo l’entusiastica parentesi del fervore amoroso, il Nostro subisce la progressiva inarrestabile “deriva” verso il disincanto, la disillusione, il tormento, per finire nella rassegnazione e nella rsa, ma con improvvise fimmate di rivolta. Si profila, così, una exit-strategy dall’aggrovigliata fatica del vivere attraverso un rcupero di luoghi, degli affetti, del tempo perduto; luoghi e affetti e tempo rivisitati in una luce nuova, la luce del rimpianto e della memoria, il ritorno alle origini, alla buona terra, alle “colline di Recanati”, ai “sodi” della contrada Bagnolo di Recanati, dove lo «tabaccolo e il nonno vergaro», insieme all’ “imberbe” nipote, perpetuavano la faticosa civiltà contadina col duro faticoso lavoro de campi.

Dapprima, dunque, l’eros e lo stordimento sentimentale, la breve stagione del fuoco e della passione amorosa: «Sei come le colline delle Marche/…/ Sodi sono i tuoi seni,/ sinuose le tue forme» (- Senza titolo -) sembra di ritrovare, in questi versi, il Neruda del “Canto General”, che peralto il poeta omaggia inserendo, in esergo alla silloge, i versi del Canto XXIV).

E’ la fase vissuta con l’intensità e l’entusiasmo della vertigine erotica e dell’abandono; il sogno che dispiega tutta la sua malia, un campo appassionato e libero che cancella il  dubbio, spegne l’inquietudine, accende voli: «Tu artefice del ritrovato canto./ Sei la musa » (My world, my love). Ma presto l’incantesimo svanisce, si compie il sortilegio, irrompono solitudine e silenzio: «Cessò improvviso l’ascolto del canto/ …/  / Tutto è ammutolito./ Mai più ascolterò il mare./ Ho fagocitato i sogni: / non ti rincorrerò/ avvedendomi pur loro traditori/ illudendo i giorni di gioventù» (Spento il canto). La pena del poeta non ha sponde, tutto diviene dolente memoria d’amore, rifiuto, felicità negata. Anche lui deve bere l’assenzio del tradimento e dell’abbandono, proprio come il “Genio” (una sorta di vite parallele) che, ne  “La sera de dì di  festa”,  si macera al chiaro di luna per un amore che non ha corrispondenze.

nella seconda fase, cadute le illusioni, il poet a si rifugia nella salvifica dimensione della fede e dell’Assoluto; qui, finalmente, il limite della grave disabilità dell’udito può essere azzerato. Per corrispondere col Padre non c’è bisogno dei segni e della gestualità delle mani. Finalmente il poeta può interrogare, chiedere, comunicare, rispondere, stabilire un rapporto “alla pari”, liberato del limite che così drammaticamente ha segnato la distanza tra lui e la società, spesso indifferente, o addirittura ostile e chiusa alla sua richiesta di “ascolto” non solo per sé, ma soprattutto per coloro i quali questo limite rappresenta una barriera insormontabile: « Sapevo che sarebbero scese le tenebre/ dei giorni e della vita (…)/ … / Arrivato il tempo della resa. / Le mani immote ai segni. / L’uomo coraggioso di me/ non più naviga quiete acque./ Elevo il grido di dolore, Padre/ perché rinnovi la promessa di fede» (Sostentamento di fede). Si tratta di una dimensione che comporta una ricerca paziente e sofferta, con la consapevolezza di avere accumuato un debito pesante come “peccatore incallito”, ma che non dispera: «Quando arriverà l’ora, Padre/ saprò staccarmi dai limiti;// non negarmi un cantuccio di cielo» (Preghiera di misericordia).

Ma talvolta il peso della solitudine e dell’abbandono è così insopportabile che la richiesta di comprensione e di perdono cede il passo allla rivendicazione e alla rivolta, tanto da sfiorare il limite del sacrilegio e della blasfemia: «Nel mio esistere a volte sono coì solo che/ la stessa solitudine impaura (…)/  / …;/ solo col bagliore di lacrime/ che scorrono ulle gote per gli errori/ accumulati e i no ricevuti// pure da te Signore» (Solitudine). Ma la solitudine compagna di tante battaglie vinte, è stata anche lei tradita dalla leggerezza e dala presunzione del poeta,  «scciocco farfallone incosciente./ Giusto il tuo abbandono./ L’inferno si sconta in vita.» L’inferno in vita. Il rinvio al celebre verso di Ungaretti, “la morte si sconta vivendo”, rappresenta l’omaggio deferente e riconoscente ad un poeta che ha segnato il Novecento col uo impegno poetico per un’umanità liberta dalla violenza e dalla guerra).

Nella terza fae della silloge, “Memorandum di luoghi e di persone”, Renato Pigliacampo compie il rito del ritorno, un “Nostos” in cui rivivono gli affetti familiari, il canto per una terra amata oltre ogni immaginazione, «Luogo d’infanzia  mio proprio -,/ vitale e caro; elevando gli occhi/ il cuore ammaliato di te./ Chi sei?//» (Le Marche al plurale regione/ ch’espande miei proibiti sogni/ (…)// A te mi dono perché tutto è qui;/ fuggiaso mai, restato all’Avemaria» (Con delicateza messo in eterno sonno). E’ questa la confessione di un amore sconfinato e di un sacro rispetto per il luogo in cui il poeta ha piantato le radici dell’anima, il “Topos” per eccellenza, punto definitivo di approdo, che restituisce la sernità tanto cercata nel suo peregrinare oltre quelle contrade che conservano le memorie più care, i segreti e le epitanie dell’infanzia. Qui il poeta esprime chiara la speranza di ritrovare pace e serenità: «La solitudine mi sarà meno penosa/ dormendo nel solco già dissodato» negli indementicati anni della fanciullezza insieme alle figure dello zio e del nonno, custode amorevoli di quel nipote “imberbe” che con loro santificava il lavoro dei campi. Netta esplode anche la rivendicazione di un’appartenenza e di un possesso di cui altri vorrebbero privarlo, «Già di me hanno sentenziato/ lo sfratto dal borgo selvaggio di mare;/ sulla carta traccio indelebile messaggio/ per i figli e nipoti generazioni future» (ibid.)

Il cerchio dunque si chiude, il viaggio volge al termine, ma non si arrende il poeta, che ancora conduce con determinazione la sua lotta in favore dei compagni a lui accomunati da una drammatica condizione  esistenziale. Ancora è vivo il martirio per un destino avvero: «E’ stato difficile girovagare/ per la penisola con questo Silenzio./ Implosive grida per l’anima assetata», e ancora senza risposta è la domanda rrelativa al istero, al senso dl vivere, al fine dell’umana avventura: «Corpo, siamo passati./ Geo ci assista per l’eternità/ nel groviglio metamorfio venire/ forse ancora in quest contrada?» (Preghiera per Geo).

Sembra l’abbandono di ogni illusione, la consapevolezza di una solitudine cosmica che non riceve segnali, che non trovo ascolto non solo presso gli umani, ma neppure preso il Verbum. Nel consuntivo finale prvale un disperato sconforto, l’ironica amarezza per l’oblio incomprnsibile, quasi un ostracismo, cui lo condanna la “sua” terra: «Non c’è più nessuno a cercarmi/ … / scordato dalla mia Porto dopo il guaio/ cui per vent’anni ho donato il Canto./ Gente comune, d’idiomatico linguggio/ ho sollevato all’attenzione d’Italia./ Solo ora piegato a guardae le onde/ scopro cche la vita discende al fine» (L’ultimo giro).

ancora e sempre il silenzio, dunque, “risponde” al poeta, certifica la fine delle illusioni, marca la distanza siderle tra la realtà e il sogno, cala definitavamente il sipario su ogni spiraglio di speranza e di luce: «L’albero di ami senza vento/ su foglie essiccate nel muto orto/ stasera chiude la storia.» (L’albero di rami senza vento).

E’ resa totola? Sembra di sì. ne prendiamo atto, anche se sappiamo che la tenacia di Renato Pigliacampo ha risorse inesaurabili. Siamo certi che l’orgoglioso, indomabile, camusiano “Uomo in rivolta” che alberga in lui troverà ancora il coraggio e la forza per tornare (proprio lui che la natura ha beffardamente priivato del uono e della musica) a “gridare” la parola, ad indicare la rotta, a tovare, per mezzo di un poièn luminoso, le risposte a lungo cercate e ad esorcizzare il silenzio.

Umberto Vicaretti, Luco dei Marsi, L’Aquila, vincitore del XXII Premio di poesia “Città di Porto Recanati”, recensione del volume,  24 sett. 2011.

da L’albero di rami senza vento, seconda edizione per Neftasia editore  2010.

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