Le madri dei piccoli sordi
Mi rendo conto che parlare alle madri dei piccoli sordi è diventato “impossibile”. Perché molte di loro non vogliono che il figlio sia indicato col termine «sordo». Celano la disabilità sensoriale con «audioleso», talvolta con la parola tipica del linguaggio ippocratico, «ipoacusico» che, da qualche anno a qua, ho soprattutto diffuso io nelle pubblicazioni scientifiche o nei convegni: e confesso che inizio a pentirmene. Decenni fa era tutto più facile parlare di sordità e di sordo. La condizione sociopedagogica e linguistica erano scontate. Veniva letteralmente spedito nelle cosiddette “scuole speciai”. Quasi tutte le regioni italiane ne avevano una nel capoluogo regionale. La retta era sostenuta dall’amministrazione provinciale di provenienza del sordo(muto). Le mamme vedevano il figlio durante le vacanze natalizie, pasquali o durante i mesi estivi, ma non sempre per coloro che, dal Meridione o dalle isole, andavano a frequentare gli istituti delle città del nord. Per molte di loro era (anche) sollievo. Non avendoli a fianco, scaricavano la responsabilità dell’istruzione e della riabilitazione alla parola verbale alle istituzioni speciali, rinviando sine die i bisogni di comunicazione. La conoscenza del figlio avveniva tardi, di solito nell’adolescenza, con le conseguenze psicologiche e linguistiche inimmaginabili.
Oggi ogni madre di bambino con problemi d’udito è chiamata a svolgere la funzione di educatrice. Se tutte le mamme sono le prime ad esercitare la funzione d’aprire la strada al mondo dei figli, poi avvicinandoli via via nelle interrelazioni sociali, la madre del piccolo sordo è - deve essere - una mamma superiore per svolgere il compito di un’educazione che non ha comparazione per difficoltà e perciò deve molto amare il suo piccolo. L’educazione, come scriveva San Filippo Smaldone, fondatore delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori, specializzate educatrici della popolazione sorda, implica molto amore. Chi non sa amare i bambini o la giovetù non può insegnare, soprattutto ai sordi o ipoacusici. Dunque è inutile il tentivo di nascondere il deficit d’udito compiendo la chirurgia estetica sulla parola che lo indichi! Bisogna affrontare la realtà per mezzo di un’educazione specializzata, là dove “il disabile” e il suo insegnante sono indotti a compiere insieme un percorso di didattica specializzata, in cui i contenuti del verbum sono sviluppati in concetti d’immagine. So che è stressante. Gli insegnati cosiddetti polivalenti di oggi, come sono preparati nei corsi di formazione per tutte le tipicità della disabilità fisica, sensoriale e psichica, non possono essere considerati specializzati, semplicemente - senza che si offendano - sono semplici samaritani, portatori di una croce che nessuno riconosce, anzi ricevono dileggio. Non si può afffrontare l’istruzione né l’educazione dei sordi o degli ipoacusici, chiamateli come preferite (insomma alunni e studenti di scuola secondaria di 1° e 2° con problemi di udito), senza studi approfonditi di Vygotskij, di Piaget, di Furth, della Montessori, dei classici di pedagogia e psicologia. Poi è bene ammettere le carenze di chi pensi che “insegnare a parlare”, ovviamente la lingua verbale, sia l’obiettivo principale del recupero del sordo alla società di maggioranza. L’esperienza con i sordi mi dice che la maggior parte di loro, cresciuta nella vocalità, sospinta a comunicare con la sola lingua verbale, non conosciuta nella doviziosità che caratterizza l’ascolto in quella lingua nel luogo in cui il soggetto interrelaziona col coetaneo udente, finisce primariamente nell’esclusione dal contesto della comunità, divenendo presenza passiva. Vygotskij scrive: «L’unità del linguaggio è un’unità complessa, non una unità omogenea e indifferenziata» (cfr Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze 1984, ristampa). Non si pensa abbastanza che noi sordi siamo speciali: troppe mamme non compiono il necessario sforzo di comprendere che «Il rappporto tra la parola e il pensiero e la formazione di nuovi concetti sono complessi, misteriosi e delicati processi spirituali». Così afferma Leone Tolstoj. Una mamma senza una minima conoscenza dei processi di apprendimento del suo bambino e dei sordi adulti istruiti bene, rimarrà nel cerchio del “pressappoco”, nell’ignoranza di base con cui vestiamo spesso le parole scientifiche, delle quali spesso non sappiamo nemmeno gli autori; tutti bravi a parlare, a imitare a voce, difficile a studiare. Insegnare bene ai sordi significa dover studiare moltissimo. L’incapacità del Ministero nell’istruzione o nel preparare i docenti per la formazione specifica - soprattutto per i sordi e i ciechi - mette a nudo una Scuola obsoleta, un corpo docente non rinnovato secondo il mutamento sociologico e tecnologico del nostro tempo. Quando il Ministero dice no alla spcificità dell’istruzione delle menti intatte dei sordi e dei ciechi, che attendono d’essere stimolate da una didattica appropriata, confessa la stessa crudeltà della Professoressa che, dai palazzi aristocratici di Firenze, scendeva nelle colline di Barbiana del Mugello per istruire i contadinelli, umiliandoli nella loro carenza di lingua italiana con votazioni di quattro in profitto. Don Milani lo aveva capito benissimo. Per questo sollecitava i piccoli a comprendere che era la lingua a fare forte il “padrone”: e che sarebbero stati loro stessi padroni quando gliela avessero sottratta. Noi sordi ci siamo accorti che è più l’impossibilità di manifestare il nostro sapere iconico, la nostra lingua visuomanuale al Ministero dell’Istruzioe (alla ministro Gelmini in primis) piuttosto che la sordità a condannarci.