Mons. Giulio Tarra

Come si augurava Mons. Tarra gli Stati d’Europa non persero tempo per proclamare il «metodo orale», approvato al Congresso di Milano. Persino la Francia, culla del «metodo gestuale» che aveva favorito molti successi negli allievi delle scuole, dopo il rapporto ufficiale  al Governo di Frank e Claveu partecipanti all’incontro di Milano, dispose negli Istituti Nazionali di Parigi e di Bordeaux di adottare il «metodo orale puro».

   Così fece la Norvegia.

   Lo stesso la Gran Bretagna.

   Idem la Svezia, la Norvegia, la Finlandia e la Danimarca.

   La Germania intende fare le cose in grande. Il Ferreri (1892) , nelle sue cronache ci ricorda che, in Germania, negli anni susseguenti il Congresso di Milano non c’è libro, non c’è relazione che non scriva o non riporti i contenuti del convegno, tanto è vero «che i maestri dellla Germania cominciano a chiamare metodo italiano il metodo proclamato dal Congresso internazionale».

La domanda ricorrente è: come mai l’Europa fu invasa dall’oralismo? La risposta ci viene dall’osservazione della società del tempo, fondata sugli scambi relazionali attraverso la parola, il verbum per antonomasia. A scuola prevaleva il nozionismo. Come in parrocchia nelle lezioni di catichismo. Il bambino udente imparava a memoria la filastrocca, l’Ave Maria e il Pater Nostrum dalla madre analfabeta. Pochissimi erano i libri in circolazione nelle case rurali, lontane dalle città. Le biblioteche un privilegio degli aristocratici e dei conventi. Il sordo era sventurato due volte: perché incapace di utilizzare il dialetto parlato dal popolo e perché, appunto, “ignorante” (ignorare ciò che succedeva nella comunità), finiva per essere considerato straniero, fuori dal gruppo. Se andava a scuola, di solito messo in istituto, l’unico col quale poteva avere un ipotetico scambio comunicativo era il maestro. Per il sordo impare a leggere e a scrivere era  tutto: liberarsi dal giogo del servilismo. Ma il maestro era udente, a scuola utilizzava la lingua italiana e, tra la gente comune, il dialetto. Era valutato - non tanto sul profitto didattico dell’alunno - sulla capacità di articolare, in modo comprensibile, le parole. Oggi, il lavoro di demutizzazione, è compito della logopedista. Sino a quando gli «handicappati» non furono accettati, nel 1977, con la famosa legge «517» nelle classi  comune della scuola pubblica, erano lasciati in balia alla volontà del maestro «per imparare a parlare». Nel nostro Paese le prime logopediste entreranno in servizio, alle dipendenze degli enti locali, a metà degli anni Settanta del secolo scorso. Appena accolte nelle scuole crearano casini; loro stesse non avevano chiaro il proprio ruolo: se solo riabilitativo o anche didattico. Succedeva che la logopedista entrava in classe, prendeva per mano l’alunno e se lo portava in un’aula attigua saltellando tra esercizi logopedici e nozioni didattiche.

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