La diversità. Quale?
I neuropsichiatri infantili, gli psichiatri ci guidano alla diagnosi dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescnza. Sono molto convincenti nell’individuare i deficit della mente e della psiche. Basta prendere in mano i loro manuali, sui quali si aggiornano o studiano, per sapere la classificazione di tutti i «disturbi». Questa continua ricerca della diagnosi ci conduce alla domanda che la maggior parte della gente teme la diversità? Certo che l’umanità è insicura. Siamo accucciati nella nostra nicchia: e quando ci avvediamo che qualcuno sfugge dal carcere dell’esistenza, o agisce in modo differente da noi, ci appare un pazzo. Compie qualcosa differente dalla massa? Ma è fuori di testa! E’ capace di comunicare con le mani? Mon Dieu, come fa a farsi capire? E’ uno squilibrato! Non c’è dubbio che le leggi della natura, della normalità codificata degli uomini è articolare l’apparato labiobuccale per produrre la parola verbale, deambulare sui due piedi per il movimento, pensare e ragionare dopo aver ascoltato i consigli di insegnanti, educatori, familiari (…). C’è sempre qualcuno tuttavia che sfugge il sistema di catalogazione. Sono i diversi, i geni che ritengono facile e ripetitivo applicare le formule senza approfondire. E allora tentano di percorrere nuove vie, l’oltre.
La diversità è temuta perché induce a scommettere sull’oltre, di fatto a riprogrammare ciò che diamo per scontato, l’ovvio. Nelle mie lezioni per il corso di specializzazione per docenti per la scuola secondaria dell’Università di Macerata ho un obiettivo, sempre: ricercare la via per riflettere sulla diversità. Il percorso iniziale è l’osservazione sistematica del «diverso» nell’interagire col «normale». E comparando le due realtà si capisce che la normalizzazione è un’etichetta, una delle tante propinate dalla comunità debole. Chi l’ha intuito non deve fare altro che strapparsi la definizione appiccicatagli addosso dalla società. E’ difficile perché siamo continuamente protesi a sentire quel che è detto dalla massa seducendoci per i piaceri, e poco tesi ad ascoltare le potenzialità dell’emozione e del pensiero che ci conducono all’introiezione dell’essere.