Spostiamo l’attenzione dall’udito al cervello del sordo
Quando do una tesi sia alle giovani laureande della Facoltà di Scienze della Formazione che alle docenti che conseguiranno la specializazione per l’insegnamento ai soggetti disabili noto che l’elaborato è focalizzato - attaccando il I capitolo - sull’immancabile sordità, considerata come deficit che blocca il processo d’apprendimento. Ciò fa pensare che, il candidato, dispone il lavoro con una mentalità stutturata esclusivamente sulla parola verbale, di udente, forgiata sulla/dallla verbalità. Ripete gli stessi argomenti e definzioni a iosa. Il modello da seguire è sempre l’udente, il coetaneo che ha la fortuna di sperimentare e utilizzare le parole verbali.
Vero che la mancanza d’udito è uno svantaggio a livello d’apprendimento immediato, ma non si fa sufficiente ricerca psicocognitiva, linguistica e metodologica per aggirare l’ostacolo del deficit sensoriale affinché sia possibile condurre il bambino sordo verso l’attività d’apprendimento col canale intatto (la vista). Il deficit è considerato, appunto, esclusivamente deficit ed è scaricato sul bambino, no sul docente o l’operatore che lo assiste nello sviluppo. Gesell, pedagogista e studioso di problematiche dei soggetti disabili, alla fine degli anni Sessanta del secolo scoro scriveva che non è normale essere sordo, «ma i sordi sono individui perfettamente normali se noi li aiutiamo a superre i vari problemi del loro handicap». Il sordo diventa un soggetto equilbrato nel momento in cui noi riusciremo a sviluppare un processo d’apprendimento efficace. Non è impegno plausibile e di lavoro scientifico disporre la programmazione didattica pensanta, e proposta, esclusivamente da chi ha sperimentato processi d’apprendimento con gli orecchi. Andare oltre per organizzare una didattica per venire incontro ai sordi vuol dire studiarne le azioni cerebrali e i meccansmi percettivi, avere la forza d’immaginazione di immedesimarsi nel loro esistere (cfr. Renato Pigliacampo, 2008).