Quando il professionista è sordo
Spesso la mancanza d’ascolto per mezzo del senso d’udito mi impedisce, di fatto, comprendere quanto dice l’interlocutore: e questo diventa più evidente quando si è in gruppo. Perché ti blocca nel dibattito, di precisare. A me succede nel «gruppo udente». Quasi tutte le mie riunioni professionali o di approfondimento di ricerche e studi sono con persone udenti. Mi ricordo che quando esercitavo la professione di psicologo all’ASL di Civitanova Marche-Recanati sopportavo uno stress gravoso con i colleghi durante le riunioni settimanali, taluni bravi nell’impegno professionale e terapeutico, ma disattenti nel calarsi nella mia condizione di sordo. Innanzitutto le riunioni avvenivano senza considerare la posizione di chi prendeva la parola; ci si siedeva attorno ad un tavolo rettangolare, badate bene scrivo rettangolare e non rotondo o a mezza luna, e chi è sordo sa bene perché. Le labbra di chi parla sono ovviamente «personali», vale a dire possono essere con gli angoli rivolti all’insù, con gli angoli rivolti all’ingiù, con labbro superiore sollevato da un lato, con labbro superiore debordante, con labbro inferiore sporgente, con labbro superiore sporgente, con labbra carnose, con labbra sottili, con labbra serrate, con labbra socchiuse (…). Io, per seguire i colleghi che intervenivano per proporre la soluzione su un caso da trattare, dovevo allungare il collo passando dal movimento delle labbra di un collega all’altro, carpendo di fretta qualche termine o intuendone un altro, e dalle smorfie o dagli scatti d’ira del collega dovevo “costruire” l’argomento del quale si dibatteva. Non è facile entrare nel contesto per suggerire la soluzione quando non hai chiara coscienza del problema. Accumulavo stress che mi prostrava; di più mi umiliava il risetto ironico di un collega allorché sbottava incavolato: «Dr Pigliacampo che c’entra quel che dice con l’argomento proposto?!». Ero evidentemente fuori tema. Quelle improvvise sortite mi mettevano kaputt. I colleghi si spremevano le meningi per la soluzione “del caso”: e le mie sortite estemporanee li irritavano e confondevano. Passavo per kofos, sciocco, vuoto. Oh, ma non sono il tipo che si perde d’animo io!Spesso trovavo soluzioni per l’impossibile. Più che «impossibile» bastava riflettere, mettersi nella situazione dell’altro perché lo svantaggio fosse risolto. Negli anni capirò che le difficoltà dei sordi le creano gli udenti perché non vogliono modificare le comodità dello statu quo.
E allora per risolvere il mio problema di comunicazione, durante le riunioni settimanali con i colleghi, puntai un giorno incazzato nell’ufficio del direttore sanitario dell’ASL urlandogli che non poteva obbligarmi a partecipare alle riunioni con i colleghi, ai corsi di formazione e di aggiornamento quando mi era impossibile labioleggere od entrare in relazione con i presenti. Il direttore sanitario, serafico, mi fece cenno di sedermi. «Allora Dr Pigliacampo» disse «l’interprete può essere fornito ad un sordo poco istruito o che svolga attività dequalificata, ma lei ha due lauree e un dottorato di ricerca!» La mia rabbia era centuplicata incendiandomi il volto. «L’interprete di lingua dei segni mi permetterà di comprendere perché, purtroppo, mi è difficile labioleggere l’interlocutore: muove la testa a destra e a manca, va di fretta o si mangia le parole, e le labbra…. »
«Ah, allora vuole proprio quello che fa i gesti?» disse con ironia il direttore sanitario.
«Senta, dottore» risposi altezzoso «non è quello che fa i gesti come lei dice, è una persona specializzata che traduce da una lingua in un’altra lingua, vale a dire dalla lingua verbale alla lingua visuomanuale e viceversa.»
«Veramene… » scrollò il capo. Poi osai una frase offensiva senza emettere un fil di voce.
«Sa che cosa le ho detto, dottore?» dissi.
«No.»
«Meno male! Per mia fortuna non è capace di labioleggere. Se non riuscite voi udenti che vivete ‘dentro’ le parole da sempre, come potete obbligare noi sordi a labioleggervi?»
«Ho capito» disse. Di lì a qualche secondo alzò il telefono per chiamare la dirigente del servizio formazione e aggiornamento del personale per chiederle se, in bilancio, era prevista una spesa per il servizio di interpretariato o di traduzione. Passarono alcuni minuti. Poi sulle labbra del direttore sanitario labiolessi «Tutto ok. Vada.»
Nella riunione della settimana successiva avevo a disposizione un interprete di LIS che “traduceva” gli interventi dei colleghi. Fu allora che mi accorsi delle mie capacità professionali che superavano di lunga quelle dei colleghi udenti; mi stupivo quando mi accorsi che trovavo soluzioni appropriate, e per me ovvie, per risolvere le problematiche degli utenti. Un giorno venne nella mia ASL un noto studioso americano per un seminario d’alta qualifica, e vedendo il mio interprete tradurmi i contenuti della relazione, con un sorriso durante una pausa, ebbe a dire:
«Finalmente gli italiani usano meno la lingua e più le mani.»