L’empatia indispensabile nel trattare il sordo
Nel trattare il “paziente” in psicoterapia, adoperarsi nel counseling psicologico ci vuole intuizione, quel processo empatico che, spesso, è innato nell’ottimo psicologo. Tanti si attribuiscono doti di «psicologi». Possiedono appunto il dono empatico. Come i «poeti». Possono avere forte immaginazione, provare emozioni, ma se non sanno scrivere, nel senso d’incapacità di mettere in versi idee e sentimenti perché ignoranti di «grammatica poetica», la loro creatività finisce nel nulla. Oggi pertanto abbiamo a bizzeffe psicologi domestici, di quartiere, di assemblea politica e/o condominale e così via. Costoro brava gente che, come i poeti semianalfabeti, credono di fare del bene: e nella realtà sono senza studi di base, senza conoscere la psiche e tutto quanto le gira dintorno nei processi neurologici, psicocognitivi e linguistici. Se non possediamo i fondamenti finiamo per confondere il paziente, peggiorando la sua condizione esistenziale.
Io, nella mia giovinezza, ero conscio d’avere potenzialità di capire il prossimo. Badate bene: ho detto «capire il prossimo». Forse il dono di una buona Psiche lo avevo ereditato da mia madre. Ella, a dire delle comari, era «guaritrice». Penetrava nelle ossa di chi soffriva di malattie reumatiche. Ma io non le credevo. Per questo la dileggiavo quando si apprestava - facendoli sdraiare in mezzo all’ampia cucina - a curare i malati di mal di schiena. Se mia madre avesse studiato medicina sarebbe stata, senza dubbio, un’ottima ortopedica.
Chiaro che nei miei studi forsennati di una giovinezza trascorsa a Padova, a Roma e nelle mie Marche avevo focalizzato dabbene dapprima la pedagogia, poi la sociologia e infine la psicologia. Perché pensavo che le doti dovevo alimentarle con lo studio e la ricerca. La scienza, come ho già affermato nell’Itinerario di Silenzio, mi faceva penare nel gruppo dei colleghi udenti quando ero dipendente dell’ASL; mi trovavo meglio a trattare, sebbene la lingua dei segni fosse differente, con gli psicologi sordi della «Gallaudet University» di Washington. Essi erano allertati nella diversità di lingua, di cultura e soprattutto nella specificità d’essere sordo, io, come loro. Realtà di difficile comprensione per i colleghi udenti, che mi alimentavano di parole «labioleggi», «sei una risorsa», «dopo approfondiamo», «considera che… ».
Comunicare è fondamentale per lo psicologo. Uno psicologo che non riesce a entrare in relazione empatica col suo paziente è nullo. Mi sono trovato molto bene con gli psicologi sordi: e con i miei pazienti ugualmente sordi o audiolesi. Ma trattando di comunicazione dobbiamo specificare di quale si tratta. Uno psicologo, per esempio, deve saper leggere il corpo. Un sordo psicologo deve leggere dapprima l’apparato corporeo del proprio paziente, poi labioleggerlo (se si tratta d’udente) e/o leggerlo nelle mani che segnano i tormenti dell’anima (se si tratta di sordo). Chiaro che bisogna partecipare alle tristezze della gente perché esorcizzi il “male oscuro” del nostro tempo. Come è indicata la depressione oggi. Eppure quasi nessuno pensa ai sordi depressi! La mia esperienza professionale mi ha allarmato sulla carenza di psicologi idonei ad esercitare psicoterapia con pazienti sordi e/o audiolesi. Vogliamo denunciarlo? Ci vergogniamo ad ammettere l’arretratezza del nostro Paese in questo settore? Non possiamo lasciare che i sordi restino sull’abisso! Il pericolo è che molti possano precipitare nel precipizio: e il peggio è che i «normali» o non lo sanno o non se ne avvedono.
E io che lo so da decenni oso (ancora) gridarlo al mondo dei «sordi».