Informazione. Da Avvenire 4 febbraio 2014, pag. 21
Josè Angel Leyva, nato a Durango, in Messico, è considerato il maggior poeta del suo paese e del mondo ispanoamericano. Laureato in medicina a Durango, ha subito affiancato alla professione di medico un’intensa attività letteraria. Estrapoliamo, da una lunga intervista a Roberto Mussapi, poeta, collaboratore di AVVENIRE, le risposte più significative.
Perché la poesia è necessaria?
«L’uomo è linguaggio, la poesia è linguaggio, se uno manca l’altro non esiste. La poesia nomina realtà possibili dalla prospettiva dell’impossibilità. I nomi di ciò che deve accadere hanno luogo solo nella poesia. Senza poesia non c’è memoria del sentimento, un futuro per la ragione.»
C’è una relazione tra poesia e speranza?
«Il destino dell’uomo è la caducità, la morte. Però la poesia ci insegna forgiare quella memoria nella quale l’uomo si proietta fra i vivi, nelle nuove generazioni, per dare senso e dignità alla propria esistenza, al suo passaggio sulla terra. La poesia è un atto d’amore totale. Questa è la sua ragione.»
La poesia può contribuire a una rinascita dell’uomo?
«La poesia è il meglio dell’uomo, ma ciò non significa che i poeti siano i migliori esseri umani. Come affermano i poeti mistici, la poesia è un dono e non tutti coloro che lo possiedono lo meritano.»
C’è una relazione, secondo lei, fra la sfera della poesia e quella del sacro?
«Non vedo una natura religiosa nella poesia, ma una presenza di misticismo, di spiritualità. I poeti autentici sono inevitabilmente spirituali, anche se solo nel momento dell’ideazione.»
Ma interrogano l’infinito…
«Sì. Nel mio caso creare immagini piuttosto che metafore. Immagini, per esempio, che lo scienziato di astrologia, Stephen Hawking, trasmette riguardo al tempo, quando ci fa capire che una stella morta migliaia di milioni d’anni fa giunge a noi come una luce appena nata. Questa è la parte spettacolare della finitudine umana, ossia la coscienza di qualcosa che è occorso nel passato cosmico, mentre lo spazio e il tempo che noi viviamo sono davvero una cosa insignificante. Però in questo istante luminoso che è la vita, filtra la conoscenza dell’inafferrabile, dell’inaccessibile. Per me questo è il fenomeno del sogno, dell’intrasogno. In questo senso la vita è una successione di sogni, e ogni volta che sogniamo viviamo altri universi.»
L’universo del sogno? Lei ha parlato di “nostalgia dei sogni”.
«Io sono intriso di nostalgia dei sogni. Ci sono cose che ho sognato e che ho vissuto, il sogno è anche evocazione necessaria del passato. Ma no un mero rivolgersi al passato, no, è l’attualizzazione delle cose non appercepite: non di quelle irrimediabili, ma dei loro fantasmi.»
Ha riportato in epigrafe a un suo libro il detto di Pessoa, “Non dormo, intrasogno” (…)
«E’ vero, nel mio libro Entrusuenos inserisco giustamente un’epigrafe di Pessoa che risponde alla domanda: “Non dormo, intrasogno”. E più avanti riprendo altre sue righe allucinanti: “Spesso il sogno ha grandi funzioni di cinema”. Non c’è niente come il cinema che assomigli ai sogni, alla vita, al viaggio. Forse adesso lo sostituirà la realtà virtuale, più vicina, alla sua natura, alla simultaneità con i sogni.»
Romeo confonde il sonno di Giulietta con la morte, e si toglie la vita, mentre lei sta dormendo. Nella “£Bella addormentata nel bosco”, il cartoon di Walt Disney, il principe non crede che Aurora sia morta, anche se risulta tale, la bacia ugualmente, lei si desta: ciò che poteva essere morte, con un bacio si rivela sonno. La morte…
«La concezione della morte cambia con l’età. Da ragazzo non la senti, hai una percezione narcisista dell’assenza. Col passare gli anni comprendi il valore del tempo, necessario per studiare, lavorare, amare… Qui nasce la cognizione del tempo e, quindi, della morte, della fine del tuo tempo. Più sei attivo e creativo, più la morte è un problema. Ma nel mio caso non si è verificato soltanto questo passaggio che credo di ogni uomo: per me il rapporto con la morte è stato molto legato alla percezione che io avevo del dolore quando ero studente in medicina e poi medico, perché si trattava del dolore degli altri, non del mio dolore. A volte la morte degli altri, la loro morte esistenziale, o la morte di una parte della tua vita, diciamo psicologica, ti apre la strada, altre volte ti seppellisce intero (…). La vita e la morte esistono in un rapporto dialettico.»