La questione dell’integrazione dello scolaro sordo è complessa. Non basta dire: accogliamo gli scolari sordi, i disabili in genere nelle scuole e nella società normale. L’ integrazione dovrebbe rendere sereno e felice il sordo. Al contraio lo troviamo ansioso, spesso addirittura aggressivo verso il coetaneo. Accade perché convive con una realtà non conforme ai bisogni di apprendimento. Allora il dramma non è più l’impossibilità d’udire, è convivere e condividere acriticamente un Sé imitativo, un surrogato di chi integralmente percepisce la comunicazione verbale. Si rinuncia ad essere se stesso, a sperimentare le proprie potenzialità psicointellettive per «copiare» il coetaneo udente che, per la gente comune, è considerato nella norma, valutazione per lo più di stolti che, per un ipotetico recupero della sensorialità uguale agli udenti, inabissano potenzialità proprie della percezione visiva del sordo. Vogliono far sposare un processo di sviluppo psicocognitivo e linguistico sul modello udente, del quale però il sordo non ha la peculiarità dell’interscambio continuo sonoroverbale, la prontezza del referente mnemonico. Eppure, le sirene dell’integrazione, hanno sempre garantito ai familiari che la sordità sarebbe stata superata con la panacea della presenza stimolatrice degli udenti. Iillusione. Potrebbe esserci qualche iniziale entusiamo ma, di lì a poco, sopravviene l’oscurità, vale a dire la mancanza di un progetto appropriato che stimoli la percezione visiva a caricarsi del lavoro dell’udito.
Salgono in cattedra alcuni studiosi di sociologia dell’integrazione che mettono i puntini sulle “i” perché distinguono la tipologia dell’integrazione (Nirje 1969) e (Wolfensberger e altri 1991) presentano differenziazioni, per esempio, annunciano l‘integrazione fisica (sistemazione dei servizi di cui si serve la persona disabile negli ambienti frequentati); l’integrazione funzionale (estensione dell’i. fisica, accesso reale agli ambienti fisici, per es.: ristoranti, mezzi di trasporto. pescine, ecc.); l‘integrazione sociale, cioè gli scambi interpersonali che l’individuo stabilisce nel quartire, scuola, lavoro e nella comunità in generale; l’integrazione personale, vale a dire le interazioni con le persone più vicine: genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici, marito o moglie, bambini; l’integrazione societale è l’esercizio dell’autonomia nella scelta di decidere sulla propria vita e coscienza dei propri diritti; infine l’integrazione organizzazionale che è la capacità di utilizzare i servizi destinati alla popolazione in generale. Pertanto prima di discutere dell’integrazione del sordo nella scuola dovremmo porci degli interrogativi se abbiamo programmato l’abbattimento delle barriere che egli incontra/trova nei contesti sociali e istituzionali. Se non ci adoperiamo prima che il sordo arrivi nelle strutture scolastiche confermiamo d’essere stolidi e incapaci d’aiutare il sordo. L’integrazione, di cui tanto vaticinano esperti e familiari, alla lunga diviene l’asino di Buridano.