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L’Informazione
Lunedì, Febbraio 25th, 2013(25.11.1996) L’informazione sociale è concretizzata verso la persona; il «segno» è dunque mirato trasformandosi via via in «simbolo». I simboli/codici riguardanti la nostra lingua non sono sufficientemente diffusi nel nostro Paese: e non lo sono perché i sordi del passato sono stati tenuti nascosti; e ancora oggi non ci sono persone qualificate per dare «risposte» linguistiche sulla ricchezza di questi simboli. Allora questi simboli, da non confondere coi «segni» della comunicazione della lingua segnica-visiva finiscono per essere mera coreografia o prestigio per pochi.
Protetto: IL CORAGGIO DI AMARE IL SILENZIO
Domenica, Febbraio 10th, 2013L’ostacolo dei sordi è «il sordo»
Martedì, Settembre 18th, 2012Sei un abisso d’ignoranza
simile a chi è senza cognizione.
Non è colpa tua. Poco ti hanno istruito.
Ogni giorno maneggiavi parole
su tonalità di voci e sintassi.
Ma l’Ostacolo regnava tristo e
per la mente la loquela spenta
attendendo infuso di gesto vocale.
Hai disperso il canto, poeta: e il sogno.
Svaghi nelle sere sul litorale
per non cedere alla Prepotenza e
invitti si credono nella Menzogna.
L’Angelo ritornerà sulla Terra
non celando i misteri di Dio e
aspre saette sulle istituzioni e
nella pugnace lotta prevarrà.
«Era un uomo» qualcuno dice.
«Che resta di lui?» insiste. «Un’icona.»
Laura, studiosa di pedagogia, dice:
«L’Ostacolo dei sordi è il sordo.»
INDIZIO FRATERNO
Mercoledì, Settembre 5th, 2012Mi è accanto in silezio
sulla spiaggia per Numana.
Scalcia l’acqua sospirando sogni.
Dice senza voce: «Hai sbagliato tutto.»
Leggo le labbra. Perplessi
guardandoci negli occhi proseguiamo.
Pensa che appartenga all’albo dei falliti:
io lo stesso di lui.
Così tanto ci rispettiamo!
«L’Adriatico è mutato» dico.
«Il mare di allora bambino.»
Ride, ironìa strana
segna il volto bellissimo.
«Hai sbagliato tutto» insiste.
«Potevi restare in città, colà
avresti fatto soldi, dicevi alla radio
con Zavattini, un’altra spinta e… »
Comprendo il discorrere labioleggendo.
Ha dato pugni pesanti sui ring d’Italia
ma le labbra son quelle di mamma.
Ridice dell’ingenuità del ritorno.
…………………………………….
Lontano fisso orizzonte di cielo
nel quale m’abbeverai fanciullo
nell’onda ancor cara al suono
sullo scoglio amico e gabbiani
schiamazzanti nel gironzare.
Con Ermanno vado a piedi nudi.
E’ stato un sogno rivisitato.
Guarda le sue mani potenti.
«A metà fu abbuiata la mia strada»
afferma. «Potevi tu l’ultimo sforzo.»
Non sapevo dei suoi sogni di gloria
e dolore. Sconosciuto fratello.
«Vedi, talvolta i luoghi t’invocano.»
Sorride bagnandosi il volto d’acqua di mare
gonfie gocce gli cadono sul viso abbronzato
guardandolo nella vitalità che prorompe
comprendo la materia che cinge sua vita.
Il silenzio regna anche verso Numana:
il Cònero si protende gibboso sul mare.
«Finiremo tutti dentro» dice.
Ha capito che ho scelto l’ideale
Mare azzurro di giuliva infanzia
volteggiano ad ali spiegate gabbiani
nell’ultimo volo alla costa.
L’onda che giunge nasconde le lacrime.
«Difficile restare» aggiungo.
Da Renato Pigliacampo, Dal silenzio, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1983.
L’America che condanna gli handicapati a morte.
Martedì, Agosto 14th, 2012Il 54enne Marvin Wilson, afroamericano del Texas, nel 1992 uccise uno spacciatore di droga informatore della polizia. Le indagini successive hanno dimostrato che il suo Q.I. è di 61, pertanto oltre il limite di 70 che definisce il «titardo mentale». Secondo i giudici era in grado di capire quando commise il delitto. Dal 1976 la Costituzione americana ha permesso la ripesa degli omicidi legali. Alcune esecuzioni non sono accompagnate da un battage pubblicitario, alla chetichella si accompgna i condannati al patibolo. Si può discutere alla lunga sulla condanna a morte degli handicappati. Ma il test per conoscere il Q.I. di Wilson sembra viziato dalla somministrazione erronea di test. La verità è evidente: gli usa, grande Paese, che risolve il possibile e, talvolta, l’impossibile non riesce ad interpretare lo status mentale di un suo cittadino per stabilire se è sano di mente o no. Conta poco ricercare se l’azione di Marvin sia dovuta ad un impulso irrefrenabile, oppure da un incallito assassino seriale (…). A tutt’oggi 3.251 detenuti sono rinchiusi nel settore “braccio di morte” in attea d’essere giustiziata. In molti Stati americani è in vigore l’omicidio legale. Durante il nazismo, i deportati venivano selezionati, separati per status fisico e, talvolta, per informazione (omosessuali, zingari ecc.), gli scartati venivano inviati alla camera a gas. La grande America fa letteralmente pena: la Corte federale si lava le mani, come Ponzio Pilato, sulle sentenze emesse dai Giudici degli Stati. La legge degli Stati prevale sulla legge della nazione. Lavarsi le mani fa comodo a parecchi: e avviene quando ci costa fatica decidere perché, nella decisione intrapresa, perdiamo uno status che ci inchioda al conformismo: Che cos’è la deocrazia se non che una cnfessione di perdono verso chi ha sbagliato anche nel momento efferato di un delitto? La legge, che condanna a morte, l’approva l’uomo che, seduto in un consesso elettivo, sta esercitando un’azione che, quasi mai, ha sperimentato di persona nella miseria e nell’umiliazione di chi, ora, manda al patibolo decidendo «condanna a morte!». Così l’handicappato è condannato due volte: prima nella società dei cosiddetti normododati che non l’ha assistito con strutture e personale qualificato nella sua specifica condizione e, poi, è scaraventarlo nel cestino dei rifiuti. L’America, grande paese, si condanna da sola con certe azioni, per ritrovarsi al pie’ di altri paesi verso i quali pontifica la sua democrazia.
La società fantasma o del pressappoco
Mercoledì, Agosto 8th, 2012(21.11.1996) Molti sordi convivono con un’idea estranea alla loro natura, ossia il «fantasma» della sordità rifiutata. Rincorrono la vocalità dell’udente, hanno la fisima di voler parlare come essi, finendo per conseguire l’obiettivo di una «normalità del pressappoco o fantasma» (Goffman, 1983).
I pubblici ufficiali devono aggiornarsi…
Mercoledì, Agosto 8th, 2012Le parole prodotte dall’esercizio ginnico dell’apparato fonico-labiale e respiratorio sono convincenti per chi ha l’esperienza di «sentire», senza l’abitudine di voler «riflettere», realtà consueta nelle persone «udenti». Quando l’udente parla, come qualsiasi altra persona… che parla appunto (!), svolge una tipica azione cinetica, e chi ha la fortuna d’essere intonato, talvolta è un ottimo persuasore per attrarre nella trappola gli ingenui, i cosiddetti creduloni. Se l’energia e la capacità di persuadere sono efficacii anche nell’interlocutore sordo, l’udente - non riuscendo più a dominarlo - si irrira o si adombra, tanto che talvolta osa aggridirlo dicendogli “tu taci!”, “stai al tuo posto!” e così via. Il povero sordo è umiliato per tale reazione! Ciò confessa che, nel nostro paese, l’educazione civica della gente è quasi zero, con carenze gravi anche nelle persone che hanno il ruolo di pubblici ufficiali.
La tenacia di Renato Pigliacampo esorcizzerà il Silenzio
Martedì, Luglio 17th, 2012«I ’sovrumani silenzi’ dell’indimenticato e indimenticabile L’Infinito di Giacomo Leopardi rappresentano lo sfondo, il paesaggio, l’habitat e, starei per dire, il liquido amniotico in cui prende corpo e vita, si nutre, fiorisce ed emerge a tutto tondo il poièn di Renato Pigliacampo ne L’albero di rami senza vento. Del grande recanatese, cantore dell’anima e dell’impescrutabile parabola esistenziale, Pigliacampo idealmente raccoglie il testimone per farsi a sua volta, come l’inimitabile conterraneo, infaticabile e tenace cercatore di risposte atte a dare senso e misura al faticoso “mestiere” del vivere. Un’ideale staffetta, dunque, che dà continuità e ritmo al viaggio verso il centro dell’insondabile e del mistero. Certo, si tratta di una scommessa estrema, di una sfida che sembra (è?…) puro azzardo, un’impresa di strenua, finanche eroica battaglia, con preannunciato retrogusto di sconfitta. Sono numerosi e ricorrenti i motivi che rimandano all’autore dei “Canti”: oltre alla parola-simbolo di questa simbiosi, ovvero il “silenzio”, anche il “nulla eterno”, la morte, l’illusione, la luna, la solitudine, il mal d’amore, le promesse, la natura, il ricordo, il mistero, il disinganno, la speranza… Si tratta, certo, di stilemi comuni dalla poesia di ogni luogo e di ogni tempo, ma nella poesia di Pigliacampo questi tratti distintivi vengono reiterati con precisi e intenzionali rimandi, quasi “chiamati” con nome e cognome, rievocati e rivisitati con amorevole e deferente omaggio per uno spirito di cui l’autore si sente come una sorta di reincarnazione, un “apostolo” di “quella” parola, di “quella” poetica.
Le fasi che contraddistinguono la struttura della silloge prendono l’avvio col il volo dalla natìa Bagnolo di Recanati «oltre gli Appennini verso Roma l’infinito» (Nel mio cuore l’amore); quindi, dopo l’entusiastica parentesi del fervore amoroso, il Nostro subisce la progressiva inarrestabile “deriva” verso il disincanto, la disillusione, il tormento, per finire nella rassegnazione e nella rsa, ma con improvvise fiammate di rivolta. Si profila, così, una exit-strategy dall’aggrovigliata fatica del vivere attraverso un recupero di luoghi, degli affetti, del tempo perduto; luoghi e affetti e tempo rivisitati in una luce nuova, la luce del rimpianto e della memoria, il ritorno alle origini, alla buona terra, alle “colline di Recanati”, ai “sodi” della contrada Bagnolo di Recanati, dove lo «tabaccolo e il nonno vergaro», insieme all’ “imberbe” nipote, perpetuavano la faticosa civiltà contadina col duro faticoso lavoro de campi.
Dapprima, dunque, l’eros e lo stordimento sentimentale, la breve stagione del fuoco e della passione amorosa: «Sei come le colline delle Marche/…/ Sodi sono i tuoi seni,/ sinuose le tue forme» (- Senza titolo -) sembra di ritrovare, in questi versi, il Neruda del “Canto General”, che peralto il poeta omaggia inserendo, in esergo alla silloge, i versi del Canto XXIV).
E’ la fase vissuta con l’intensità e l’entusiasmo della vertigine erotica e dell’abandono; il sogno che dispiega tutta la sua malia, un campo appassionato e libero che cancella il dubbio, spegne l’inquietudine, accende voli: «Tu artefice del ritrovato canto./ Sei la musa » (My world, my love). Ma presto l’incantesimo svanisce, si compie il sortilegio, irrompono solitudine e silenzio: «Cessò improvviso l’ascolto del canto/ …/ / Tutto è ammutolito./ Mai più ascolterò il mare./ Ho fagocitato i sogni: / non ti rincorrerò/ avvedendomi pur loro traditori/ illudendo i giorni di gioventù» (Spento il canto). La pena del poeta non ha sponde, tutto diviene dolente memoria d’amore, rifiuto, felicità negata. Anche lui deve bere l’assenzio del tradimento e dell’abbandono, proprio come il “Genio” (una sorta di vite parallele) che, ne “La sera de dì di festa”, si macera al chiaro di luna per un amore che non ha corrispondenze.
Nella seconda fase, cadute le illusioni, il poeta si rifugia nella salvifica dimensione della fede e dell’Assoluto; qui, finalmente, il limite della grave disabilità dell’udito può essere azzerato. Per corrispondere col Padre non c’è bisogno dei segni e della gestualità delle mani. Finalmente il poeta può interrogare, chiedere, comunicare, rispondere, stabilire un rapporto “alla pari”, liberato del limite che così drammaticamente ha segnato la distanza tra lui e la società, spesso indifferente, o addirittura ostile e chiusa alla sua richiesta di “ascolto” non solo per sé, ma soprattutto per coloro i quali questo limite rappresenta una barriera insormontabile: « Sapevo che sarebbero scese le tenebre/ dei giorni e della vita (…)/ … / Arrivato il tempo della resa. / Le mani immote ai segni. / L’uomo coraggioso di me/ non più naviga quiete acque./ Elevo il grido di dolore, Padre/ perché rinnovi la promessa di fede» (Sostentamento di fede). Si tratta di una dimensione che comporta una ricerca paziente e sofferta, con la consapevolezza di avere accumuato un debito pesante come “peccatore incallito”, ma che non dispera: «Quando arriverà l’ora, Padre/ saprò staccarmi dai limiti;// non negarmi un cantuccio di cielo» (Preghiera di misericordia).
Ma talvolta il peso della solitudine e dell’abbandono è così insopportabile che la richiesta di comprensione e di perdono cede il passo alla rivendicazione e alla rivolta, tanto da sfiorare il limite del sacrilegio e della blasfemia: «Nel mio esistere a volte sono così solo che/ la stessa solitudine impaura (…)/ / …;/ solo col bagliore di lacrime/ che scorrono sulle gote per gli errori/ accumulati e i no ricevuti// pure da te Signore» (Solitudine). Ma la solitudine compagna di tante battaglie vinte, è stata anche lei tradita dalla leggerezza e dalla presunzione del poeta, «sciocco farfallone incosciente./ Giusto il tuo abbandono./ L’inferno si sconta in vita.» L’inferno in vita. Il rinvio al celebre verso di Ungaretti, “la morte si sconta vivendo”, rappresenta l’omaggio deferente e riconoscente ad un poeta che ha segnato il Novecento col suo impegno poetico per un’umanità liberta dalla violenza e dalla guerra).
Nella terza fase della silloge, “Memorandum di luoghi e di persone”, Renato Pigliacampo compie il rito del ritorno, un “Nostos” in cui rivivono gli affetti familiari, il canto per una terra amata oltre ogni immaginazione, «Luogo d’infanzia mio proprio -,/ vitale e caro; elevando gli occhi/ il cuore ammaliato di te./ Chi sei?//» (Le Marche al plurale regione/ ch’espande miei proibiti sogni/ (…)// A te mi dono perché tutto è qui;/ fuggiasco mai, restato all’Avemaria» (Con delicatezza messo in eterno sonno). E’ questa la confessione di un amore sconfinato e di un sacro rispetto per il luogo in cui il poeta ha piantato le radici dell’anima, il “Topos” per eccellenza, punto definitivo di approdo, che restituisce la serenità tanto cercata nel suo peregrinare oltre quelle contrade che conservano le memorie più care, i segreti e le epifanie dell’infanzia. Qui il poeta esprime chiara la speranza di ritrovare pace e serenità: «La solitudine mi sarà meno penosa/ dormendo nel solco già dissodato» negli indementicati anni della fanciullezza insieme alle figure dello zio e del nonno, custode amorevoli di quel nipote “imberbe” che con loro santificava il lavoro dei campi. Netta esplode anche la rivendicazione di un’appartenenza e di un possesso di cui altri vorrebbero privarlo, «Già di me hanno sentenziato/ lo sfratto dal borgo selvaggio di mare;/ sulla carta traccio indelebile messaggio/ per i figli e nipoti generazioni future» (ibid.)
Il cerchio dunque si chiude, il viaggio volge al termine, ma non si arrende il poeta, che ancora conduce con determinazione la sua lotta in favore dei compagni a lui accomunati da una drammatica condizione esistenziale. Ancora è vivo il martirio per un destino avvero: «E’ stato difficile girovagare/ per la penisola con questo Silenzio./ Implosive grida per l’anima assetata», e ancora senza risposta è la domanda relativa al mistero, al senso dl vivere, al fine dell’umana avventura: «Corpo, siamo passati./ Geo ci assista per l’eternità/ nel groviglio metamorfico venire/ forse ancora in questa contrada?» (Preghiera per Geo).
Sembra l’abbandono di ogni illusione, la consapevolezza di una solitudine cosmica che non riceve segnali, che non trovo ascolto non solo presso gli umani, ma neppure preso il Verbum. Nel consuntivo finale prevale un disperato sconforto, l’ironica amarezza per l’oblio incomprensibile, quasi un ostracismo, cui lo condanna la “sua” terra: «Non c’è più nessuno a cercarmi/ … / scordato dalla mia Porto dopo il guaio/ cui per vent’anni ho donato il Canto./ Gente comune, d’idiomatico linguaggio/ ho sollevato all’attenzione d’Italia./ Solo ora piegato a guardare le onde/ scopro che la vita discende al fine» (L’ultimo giro).
Ancora e sempre il silenzio, dunque, “risponde” al poeta, certifica la fine delle illusioni, marca la distanza siderale tra la realtà e il sogno, cala definitivamente il sipario su ogni spiraglio di speranza e di luce: «L’albero di ami senza vento/ su foglie essiccate nel muto orto/ stasera chiude la storia.» (L’albero di rami senza vento).
E’ resa totale? Sembra di sì. Ne prendiamo atto, anche se sappiamo che la tenacia di Renato Pigliacampo ha risorse inesaudibili. Siamo certi che l’orgoglioso, indomabile, camusiano “Uomo in rivolta” che alberga in lui troverà ancora il coraggio e la forza per tornare (proprio lui che la natura ha beffardamente privato del suono e della musica) a “gridare” la parola, ad indicare la rotta, a trovare, per mezzo di un poièn luminoso, le risposte a lungo cercate e ad esorcizzare il silenzio.
Umberto Vicaretti, vincitore del XXII Premio di poesia “Città di Porto Recanati”, recensione del volume, L’albero di rami senza vento, Luco dei Marsi, L’Aquila.
Le emozioni dei sordi
Lunedì, Luglio 16th, 2012(21.01.1997) La maggior parte delle persone - compresi i docenti specializzati e chi opera per nel mondo del Silenzio - dimentica che noi sordi abbiamo emozioni: e siamo coinvolti nell’ansia quando, accanto agli udenti, che siano coetanei o meno, non capiamo il loro interloquire… Ansia che si accresce, nei soggetti di scarsa scolarizzazione, in panico o di reale rifiuto dell’udente. Quante giovani sorde mi hanno comunicato, dopo una delusione d’amore con un ragazzo udente, che mai più avrebbero avuto storie con un udente (sic). A questo punto dobbiamo affermare che i sentimenti dei sordi sono poco rispettati e approfonditi per il raggiungimento di uno sviluppo equilibrato.