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L’anno 1981: inizio di coscienzazione

Domenica, Aprile 29th, 2007

L’anno 1981 è «l’anno internazionale delle persone handicappate». Non c’è città o paese in ogni dove dell’Italia dove non si celebri «l’handicappato» in ogni forma: le esperienze di vita nei vari settori di lavoro, di studio eccetera, la sessualità, l’approccio con le persone cosiddette normali, l’ambiente familiare, la scuola e altro ancora. Il termine «handicappato» è utilizzato in modo generico, approssimativo. Ma per ora fa comodo a tanti utilizzare questa parola che non chiarisce nulla. I convegni si susseguono l’un l’altro nelle scuole di ogni ordine grado. Presidi, in pompa magna, salgono in cattedra e davanti a colleghi, docenti e familiari dei «portatori di handicap» tengono interminabili sermoni terminanti immancabilmente con frasi ad effetto: «nella mia scuola l’integrazione è pienamente considerata, matura», «gli handicappati sono una risorsa per la nostra scuola», «nessuno è handicappato perché siamo tutti handcappati», «la presenza degli handicappati nella scuola è fondamentale per diventare normali». Avanti così: e chi più ne aveva più ne metteva. Siamo all’alba dell’apertura delle porte della scuola, della stessa società:  e tanti operatori sociosanitari e scolastici compiono svavarioni che saranno fatali in fututo per la reale integrazione scolastica e sociale. Quasi nessuno mette un po’ d’ordine nelle parole utilizzate. Eppure gli “esperti” dovrebbero sapere che il termine «handicap» è inglese, nulla ha a che fare con la disabilità fisica, sensoriale e psichica. Era all’origine utilizzato nella corsa dei levrieri e dei cavalli campioni. Il fatto d’essere invincibili quando partivano insieme agli altri aveva indotto gli organizzatori a farli partire indietro di cinque-dieci metri, vale a dire in handicap per rendere la vittoria incerta sino al termine della gara. Applicato al mondo dei disabili «handicap» significa dunque svantaggio. Ma se siamo così diligenti e preventivi formando persone professionalmente competenti e capaci di affrontare lo svantaggio, predisponendo strutture e strumentazioni adeguate l’handicap è annullato, resterà solo la disabilità. I sordi, per fare un esempio, possono partecipare ad un dibattito ed essere attivi se forniamo loro un interprete, il quale potrà essere labiale o di lingua dei segni, annullando l’handicap in quel determinato ambiente, sebbene resterà la disabilità dell’ascolto attraverso il canale acustico-verbale. Abbiamo scritto molto su questi argomenti (v. R. Pigliacampo, Lo Stato e la diversità, Armando editore, Roma 1983; Handicappati e pregiudizi: assistenza-lavoro-sessualità, Armando, 1994; Lettera a una Ministro (e dintorni), Armando, 2006; Lettera a una logopedista, Edizioni Kappa, Roma, 1996) denunciando che, in un paese democratico e civile, l’handicap non dovrebbe esistere. Pertanto affermare o dire «scuola aperta all’handicappato», «sessualità dell’handicappato», «psicologia dell’handicappto» e quanto altro è fuorviante. Occorre avere la preparazione di affrontare il problema della disabilità per eliminare la presenza dello svantaggio (l’handicap).

Il fervore dell’anno internazionale… dell’handicappato del 1981 è importante perché conduce il potere politico a rivedere le scelte compiute sino ad allora, per lo più segreganti, “nascoste” altrove per salvaguardare la buona fama di famiglie, la dignità di qualcuno, le decisioni di pochi o della stessa comunità. Ecco le note istituzioni speciali degli «istituti dei sordomuti», degli «istituti dei ciechi», degli «istituti dei matti» e via di questo passo. E’ presente un centro per tutti (sic). Le strutture territoriali appena nate (le Aziende sociosanitarie) con la legge 833/1978 devono confrontarsi a livello territoriale con i nuovi utenti. Nella fretta di recuperare il tempo perso «per il bene degli handicappati», come ammetteranno gli amministratori degli enti locali e i professionisti della riabilitazione, si scorda di studiare e valutare la forma della disabilità, talvolta inscindibile dai processi di apprendimento e dello sviluppo del linguaggio. Per esempio come è caratteristica nei sordi. Nel territorio di competenza dell’ASL il fervore di riabilitare, istruire e normalizzare dà alla testa a tanti. Guai a quegli assessori o sindaci che osano porre un minimo di verifica scientifica alle proposte di mamme e novelli apostoli di sanizzazione. Le logopediste bandiscono ai genitori che i figli sordi frequentino altri sordi perché «altrimenti imparano i brutti gesti». Propongono per modello l’udente, vale a dire il «normale». I sordi «devono parlare» e possono farlo solo se frequenteranno il gruppo udente. Se bazzicano l’handicappato resteranno handicappati. Affermazioni assodate e confermate dagli «esperti» che gironzolano, come corvi, dintorno alla preda. Il loro scopo è proporre, partendo dagli “handicappati”, nuove prospettive professionali, lavorative (…). La magior parte degli operatori  però scorda la persona per puntare ad una mera normalità (tutta da dimostrare) dando l’ostracismo alle esigenze  specifiche, dovute al buonsenso.

La tua voce

Martedì, Aprile 24th, 2007

Sei passata nel respiro del vento
volo desolato sul mio mare
di te non conoscevo rotte
per queste coste antiche sovrane
(O Speranza che nel tuo nome invoco
d’aver vissuto nei silenzi un amore:
una breve stagione
un impeto di sensi
di parole scritte sulla sabbia)
Tutto è andato!

Guardo le nuvole sparire
oltre il Cònero, simbolo
di queste Marche tenaci sofferte
di poeti rapiti nei pensieri,
sul mare azzurro disteso
l’onda rievoca il tuo nome
che mai saprò nel tono di voce

da Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, Pavia 2007.

Legge 23 dicembre 1978, n. 833

Venerdì, Aprile 20th, 2007

All’inizio del 1982 in Italia iniziarono ad operare le Aziende socio-sanitarie,  con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 «Istituzione del servizio sanitario nazionale». Non era stato sufficiente dare il via alle nuove strutture, gran parte della gente addirittura si confonde sulle iniziali del nuovo organismo. Perché non tutte si chiamano allo stesso modo. C’erano quelle denominate aziende socio-sanitarie, oppure le unità  dei servizi socio-sanitari locali, e così via. Ogni regione italiana le aveva ‘battezzate’ secondo la propria filosofia. Per quanto riguarda i bambini con problemi sensoriali, per esempio i bambini ciechi o sordi, i comuni di residenza delegavano la riabilitazione e l’intervento proprio all’azienda sanitaria locale, che si estendeva (o si estende) per più comuni, o per una vasta zona di città. E’ il periodo in cui gli operatori sociosanitari (medici scolastici, assistenti sociali, pedagogisti, primi psicologi, ecc.) presenti nei comuni ‘passano’ all’ASL. Danno origine alle famose «equipe psicopedagogiche». Anche questa denominazione è variabile. Perché è indicata secondo il ghiribizzo del dirigente sanitario o il presidente dell’ASL. In molte regioni sono chiamate «équipe di riabilitazione», «équipe neuropsicopedagogiche», «équipe socioriabilitative di base» e altre nominazioni. Chi agisce in seno all’équipe per il bambino sordo? Abbiamo visto che la logopedista spadroneggia sia a scuola che nell’istituendo centro di riabilitazione dell’ASL.Taluni comuni avevano convenzioni con specialisti e altri operatori che, la nuova azienda, volendo o no, confermerà. Questi “esperti” avevano in comune soltanto la valutazione di scorgere nel bambino solo la menomazione sensoriale. Dunque la disabilità. Pertanto la proposizione era scontata: disabilità = handicap, svantaggio; abolire la disabilità, curarla, annullarla o dominarla con interventi radicali (chirurgici) o supporti proteseici facevano sì che il soggetto divenisse «normale» o «integrato con i normali». Per decenni nelle aziende socio-sanitarie locali équipe multidisciplinari promuovono la cultura del coattismo riabilitativo: e non solo per i sordi, i quali «devono imparare a parlare». I vecchi pedagogisti sono soppiantati dagli psicologi, che fanno comunella con i neuropsichiatri infantili. Ricordiamo che in Italia le prime lauree in psicologia saranno consegnate a metà degli anni ‘70. I pedagogisti, che operavano nelle équipe prima dell’apparire degli psicologi, furono lo stesso accolti honoris causa nell’albo professionale degli psicologi ex lege, ma sempre malvisti dagli psicologi con titolo academico specifico. I conflitti per l’integrazione degli «handicappati» sono quotidiani nelle équipe perché il bambino - con problemi d’udito - è valutato su presupposti differenti dai componenti dell’équipe. Il fervore di iniziative  nel territorio dell’azienda sociosanitaria è positivo per taluni disabili. Tutto ciò era stato preceduto da un evento molto importante: l’anno internazionale degli handicappati del 1981.

Dio e le parole

Lunedì, Aprile 9th, 2007

Non voglio parlare con nessuno
né coi vivi né coi morti.
Voglio interloquire con l’Essere.
Unico a capire
questo linguaggio che mi conduco
sui monti Sibillini
nei paesi delle Marche
violate da ruspe e gru

Dio ha generato i poeti
col suo linguaggio.
Perché temeva di star solo:
compì il miracolo del Dialogo
tra Sé e il poeta.
E Dio, per non avere uno sciocco a fianco,
gli permise l’accesso al segreto delle parole

(Il poeta dialoga con Dio:
ne conosce il mistero
d’inventar morfemi
con cui genera e illude il mondo)

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da Renato Pigliacampo, Ascolta il mio silenzio, Edizioni Cantagalli, Siena, 1999.

I sordi iniziano a frequentare la scuola residenziale

Domenica, Aprile 8th, 2007

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso in Italia è stata emanata la riforma socio-sanitaria che metteva fine alle «mutue» e agli innumerevoli «enti inutili». Così erano indicati gli enti che gestivano l’assistenza degli handicappati, secondo la tipologia della disabilità. Il Sistema Sanitario Nazionale del 1978 delegava dapprima alle regioni, successivamente agli enti locali che -  faticosamente - creavano strutture adeguate per la riabilitazione secondo la specifica disabilità. L’anno precedente, nel 1977, con la legge 517 le scuole territoriali aprivano le proprie classi agli handicappati. Gli «istituti dei sordomuti», gestiti per lo più da congregazioni religiose, dall’ENS e dallo Stato (solo tre a livello nazionale) si svuotavano lentamente (…). I sordi iniziavano a frequentare le classi comuni, sebbene i docenti capaci d’insegnar loro il far di conto, qualche frase scritta e l’avvio all’apprendimento ce ne erano pochi. Costoro, incapaci confessi davanti all’autorità scolastica e sociosanitaria, lasciavano che dell’allunno se ne occupasse la logopedista. Costei, in quegli anni, si presentava nella scuola territoriale competente del comune in cui prestava servizio, si appropriava dell’alunno portandoselo in un’apposita aula, strutturata per la bisogna, e iniziava a far di tutto: logopedia e programmazione didattica. Il suo procedimento era esclusivamente oralista. Il metodo orale del 1880 di Mons. Giulio Tarra era vangelo, alzandolo ogni volta che qualcuno la contraddiva. Ma ce ne erano pochissimi di insegnanti che osavano ostacolarne le proposte di «recupero alla parola» (v. Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando editore, Roma 2005 segreteria@armando.it). Aveva l’egemonia dell’alunno. La buona fede era supportata da programmi di studi nelle più variegate scuole della penisola dove, zelanti otorino e audiologi (questi ultimi stavano proponendosi per la nuova specializzazione), le addottrinavano su programmi per «l’insegnamento del linguaggio ai sordi». All’inizio il titolo che veniva loro rilasciato era  indefinito, per esempio aveva denominazioni diverse: «tecnico di logopedia», «ortofonista», «tecnico di riabilitazione fonica» e così via. Solo nei decenni successivi si arriverà ad un ordinamento didattico comune, sino all’istituzione dei corsi universitari di oggi. Dunque la presenza del sordo nella scuola territoriale non era prettamente apprenditivo-didattico, ma logopedico-riabilitativo. Là dove era necessario un docente specializzato, per attivare una didattica appropriata, si forniva un “riabilitatore” per il semplice fatto che le mamme s’erano coalizzate con la fisima di volere per i figli l’acquisizione della lingua verbale, sollecitate da un’agguerita associazione di genitori di sordi che puntava contro i ghetti in cui lo Stato aveva rinchiuso «i poveri sordomuti». Le “logopediste” di allora erano assunte per chiamata diretta dai comuni. Il loro caposervizio era, di solito, il responsabile della sanità dell’assessorato dei servizi sociosanitari e scolastici. Molte di esse passavano l’intera giornata seguendo uno o due alunni del territorio comunale o zona. Ogni mese le veniva consentito di fruire il massimo delle ore di straordinario (spesso con proroga) dei contratti sindacali (….). Ognuna - in buona fede, si intende - aveva orrore che il proprio utente contattasse il simile e «imparasse i gesti». I bambini sordi crescevano isolati: uno qua e uno là. Mai potevano incontrarsi, vedersi in volto, confrontarsi. Ciascuna logopedista era gelosa di un modesto successo sia didattico sia logopedico. I docenti erano derisi quando osavano rivolgersi ai ragazzi sordi con qualche gesto convenzionale. «Poveretti, sanno solo gesticolare!». Col tempo, anche gli insegnanti che avevano buona volontà di comprendere la fenomenologia e adeguarsi alle esigenze dello scolaro, finivano per rinunciare e tirarsi da parte per lasciare completo spazio alla nuova Figura professionale.

Il problema è che lo Stato non si è mai adoperato per preparare il nuovo personale né di docenza né di riabilitazione per accogliere gli studenti sordi e/o audiolesi nelle classi comuni. Gli «enti disciolti», come l’ENS, l’UIC, o altre associazioni di categoria che avevano gestito, per decenni, scuole d’ogni ordine e grado, erano messi dapparte, bollati come promotori di ghetti, in cui l’handicappto - come veniva indicato - non poteva che restare in svantaggio, emarginato dal consorzio della società normale. La verità era esplicita solo ad alcuni: dietro la battaglia di deistitutizionalizzare la frequenza delle  «scuole speciali» dei sordi - e non solo loro! - si giocava un progetto politico della sinistra che voleva togliere risorse e privilegi agli enti ecclesiastici o agli enti a carattere associativo nei quali operavano dirigenti che non erano certo disabili, per lo più accondiscendenti alle pressioni politiche del ministro o capo di governo del momento: clientelismo e nepotismo che si ripercuotevano sulla qualità dell’insegnamento e della riabilitazione.

I familiari respingono il figlio sordo

Domenica, Aprile 8th, 2007
Le ricerche sui genitori udenti con figli sordi hanno messo in evidenza l’impossibilità d’accettare la condizione della menomazione uditiva. Il primo ostacolo che spaventa la madre, il padre e qualsiasi altro familiare è la Barriera di comunicazione. Considerata molto peggio delle “barriere architettoniche” che inquietano i genitori dei disabili motori. Perché costoro sanno che cosa fare, mentre i genitori dei sordi barcolano nell’ignoranza. La mamma è frastornata, confusa dalla traduttrice  vista in televisione che, con maestrìa, interpreta in lingua dei segni le notizie lette dal telecronista. «Potrei apprendere qualche segno» riflette tra sé e sé. Tuttavia col passare il tempo dalla diagnosi della sordità non decide, rinvia sine die. La logopedista, con la quale si è confidata, la scoraggia. «Vuole scherzare, signora?! Se si mette a gesticolare suo figlio non imparerà più a parlare! Solo la lingua verbale gli permetterà l’accesso alla normalità, integrarsi.» A poco a poco, invece di intraprendere la modalità di una comunicazione corretta fondata sul processo visuomanuale per comunicare col bambino, finisce per respingere tutto ciò che è espresso con le mani, viste girellare come ali di farfalla impazzite attorno al corpo del figlio (…). Perciò è sollecita a cambiare canale televisivo quando appare, accanto al telecronista sulla finestrella  del video, l’interprete. «Meglio che il bambino non la veda, potrebbe sorgergli lo sghiribizzo di imitarla» dice al marito. In cuor suo pensa che se il piccolo apprendesse quell’inconsueta modalità di comunicazione sarebbe confessare la sconfitta dell’acquisizione del linguaggio dei normali (!) ai parenti, agli amici e conoscenti, dire chiaro che il figlio è «sordo», «handicappato». Nell’altalena di rinvio sorge il dubbio se i segni, «i gesti» come li definisce, veicolano il pensiero e le emozioni.      

E’ difficile convincere una madre udente ad imparare la LIS perché, per farlo, dovrebbe possedere estese nozioni psicolinguistiche e conoscenze dei processi psicocognitivi. Che raramente ha. Qualcuna di loro si avvicina ai corsi di lingua dei segni dopo aver avuto informazioni da un insegnante di sostegno che ha sentito dire ad un convegno che «la lingua dei segni è importante per i bambini sordi (…)». Nel frattempo impone al figlio le proprie labbra per la labiolettura, pretende che il padre, i nonni e i parenti si adeguino al suo modo di parlare al bambino. Il piccolo - proprio perché la cognitività è sollecitata dall’input percettivo visivo - inventa gesti noti solo a lui o ai pochissimi che hanno la briga di seguirlo nella contorta comunicazione. La madre attende che la logopedista compia l’effeta, l’apriti evangelico. Oh, la questione è un’altra! La sordità, la signora non l’ha capito, non si doma. Perché sia vinta va raggirata con astuzia e intelligenza. Il bambino sordo chiede alla madre udente di imparare a comunicare con lui innanzitutto; poi deciderà lui a scegliere la modalità più efficace nell’interrelazione con gli altri, secondo l’interlocutore che avrà di fronte.

Solitudine e speranza

Sabato, Marzo 24th, 2007

Ho voglia di cantare, di liberarmi
d’una solitudine ch’è solo in me:
mi crocifigge da tempo;

la vedo nel volo del gabbiano,
nello sfuggente gioco del bardascio,
nel greve cammino dell’anziano,
nella mano del povero che si tende,
nel celebrante della chiesa vuota,
nella madre che percorre il camposanto
in cerca di familiare avello

(Solitudine sarai mia sposa stasera,
pur sapendo che pace non arrivera’
dall’altra sponda martoriata violata)

Stamattina era primavera
sul volto radioso d’un fanciullo
che mirava il sole

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da: L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, 2006.

Intellettuali e interessi

Giovedì, Marzo 22nd, 2007

Avete notato il numero degli intellettuali in Parlamento? E’ così esiguo che non c’è il numero legale per poter creare una cooperativa culturale (sic!). Mi assicurerete che ce ne sono abbastanza di deputati e senatori che scrivono libri di sociopolitica, o romanzi, e parecchi giornalisti… Vero. Ma non mi riferivo a costoro, intendevo l’Intellettuale con la I maiuscola,  il pensatore politico-filosofo. Come Croce. Come Gentile. Penso, per l’oggi, a Giovanni Sartori, ad Umberto Eco, …. Ma gli intellettuali organici non hanno buona fortuna nei partiti. Bertinotti ha preferito portarsi in parlamento Luxuria e Casarini, piuttosto che un Asor Rosa o altri intellettuali di sinistra. Di Pietro, nella circoscrizione campana, ha inserito in lista De Gregorio; forse costretto a considerarlo per le promesse di voti, portati poi pro domo sua! Appena eletto ha iniziato a sfasciare l’Italia dei Valori. “Intellettuale” anche lui, dato che fa anche l’editore! … Nella politica italiana non si contrappongono più ideologie e valori, ma esclusivamente interessi. E nella lotta per la cupidigia di abbrancare “interessi”, l’altro non è più un concorrente, ma un avversario da battere ad ogni costo, un nemico insomma. Come si può eliminare il tornaconto politico? Bisognerebbe abolire l’indennità di carica. Elargire solo lo stipendio o la pensione che si percepiva prima di accedere in Parlamento. Poi si forniscano i servizi e i rimborsi delle spese sostenute per il mandato elettivo. Pensate sia l’ingenuità di uno che non conosce la macchina mangiasoldi dei partiti? La conosco. Ma dico che è immorale stipendiare chi non produce niente, per esempio i cosiddetti “pianisti”. Abolita la lucrosa indennità di carica, si candideranno al Parlamento solo coloro che hanno vera passione politica, e chi si adopera per la comunità. Forse si danno prebende a chi accompagna malati a Lourdes? o ai tantissimi che s’impegnano nelle migliaia e miglia di associazioni di solidarietà? Quarant’anni fa, Giuseppe Maranini, tra i primi a criticare i partiti, scriveva: “Una democrazia non è tale se non offre agli elettori strumenti validi e intelligibili per scegliere il gruppo dei governanti“. I partiti che ora sono in Parlamento hanno scelto i propri uomini, yesmen e “necessari,” per collegarli nelle commissioni. L’elettore italiano è stufo di quest’andazzo. La perfidia della legge elettorale del passato governo si protende minacciosa sulla stabilità dell’attuale. La sconfitta del capo di governo precedente è sempre astiosa e vendicativa: e quella di Berlusconi si allunga sull’Italia perché, per lui, “fare politica” vuol dire “essere Potere”, anche con la P maiuscola, sceneggiando posture alla Napoleone. Non è un modello: è il totalitarismo più pericoloso, camuffato nel sorriso-esca pro-ingenui.

L’ingenuità di Popper

Giovedì, Marzo 8th, 2007

Il filosofo Popper è un illuso, afferma: “Abbiamo un dovere verso i giovani: insegnargli a costruire un mondo meno violento“. Quel che è accaduto allo stadio di Catania, dove centinaia di giovani hanno sbrancato poliziotti sino a renderne qualcuno a morte, significa che noi genitori non abbiamo impartito nessun’educazione né valore né rispetto per la vita. La sconfitta è più nostra che vostra, ragazzi. Eppure “gli adulti non capiscono niente da soli e i bambini si stufano a spiegar loro ogni volta tutto daccapo (…). Poi, questi adulti, non hanno più tempo ad imparare il nuovo.” (Antoine Saint-Exupére - Il piccolo Principe). Io il libro del piccolo Principe non lo avevo letto da bambino, perché in campagna non era consueto starsene sui libri: “leggere rovina la vista”, diceva qualche vecchia contadina. Bastava avere attenti gli orecchi per satollarsi di racconti della vergara o del vergaro ed essere educati ai diritti e ai doveri. Troppi giovani, oggi, vogliono tutto e sùbito. I diritti portano solo al “volere/voglio”; i doveri impongono “sacrificio” e “dare”. Quando, nel nostro tempo, il giovane scapestrato trova un ostacolo o un impedimento che gli blocca la possibilità d’avere, eccolo annientare, anche col sangue, chi glielo impedisce, considerato come un “nemico”. “O tempora, o mores!” s’alza la voce di Marco Tullio Cicerone. Taluni giovani “normali” mi fanno paura: il loro modo di vivere la gioventù come fosse l’ultima decade dell’esistenza; il contatto con i giovani di altre esperienze o di altre idee politiche che assurge quasi sempre a scontro; il loro essere studenti incapaci di porre domande per costruire il futuro attraverso la cultura… Mi rendo conto che l’educazione come l’ho sperimentato è morta. Dobbiamo ripensarla da cima a fondo. Come? Forse noi genitori ci convertiremo bambini, chissà che non riusciremo a trovare un punto d’incontro. Forse ritorneremo a mettere in riga le generazioni. Diceva Esiodo: “Azioni di giovani, consigli di persone di mezza età, preghiere di vecchi“. Ma pia illusione che ha fatto il tempo (…). Tuttavia mi ha fatto impressione quel ragazzo scuola incontrato l’altro ieri ad un convegno, su un foglio mi ha tracciato le frasi: “Perché non iniziate ad ascoltarci? Nessuno si avvede della nostra solitudine e sete d’amore?“. E’ proprio così.

Il discorso sull’integrazione è sempre proposto dagli specialisti udenti

Lunedì, Marzo 5th, 2007

La questione dell’integrazione dello scolaro sordo è complessa. Non basta dire: accogliamo gli scolari sordi, i disabili in genere nelle scuole e nella società normale. L’ integrazione dovrebbe rendere sereno e felice il sordo. Al contraio lo troviamo ansioso, spesso addirittura aggressivo verso il coetaneo. Accade perché convive con una realtà  non conforme ai bisogni di apprendimento. Allora il dramma non è più l’impossibilità d’udire, è convivere e condividere acriticamente un Sé imitativo, un surrogato di chi integralmente percepisce la comunicazione verbale. Si rinuncia ad essere se stesso, a sperimentare le proprie potenzialità psicointellettive per «copiare» il coetaneo udente che, per la gente comune, è considerato nella norma, valutazione per lo più di stolti che, per un ipotetico recupero della sensorialità uguale agli udenti, inabissano potenzialità proprie della percezione visiva del sordo. Vogliono far sposare un processo di sviluppo psicocognitivo e linguistico sul modello udente, del quale però il sordo non ha la peculiarità dell’interscambio continuo sonoroverbale, la prontezza del referente mnemonico. Eppure, le sirene dell’integrazione, hanno sempre garantito ai familiari che la sordità sarebbe stata superata con la panacea della presenza stimolatrice degli udenti. Iillusione. Potrebbe esserci qualche iniziale entusiamo ma, di lì a poco, sopravviene l’oscurità, vale a dire la mancanza di un progetto appropriato che stimoli la percezione visiva a caricarsi del lavoro dell’udito.

Salgono in cattedra alcuni studiosi di sociologia dell’integrazione che mettono i puntini sulle “i” perché distinguono la tipologia dell’integrazione (Nirje 1969) e (Wolfensberger e altri 1991) presentano differenziazioni, per esempio, annunciano l‘integrazione fisica (sistemazione dei servizi di cui si serve la persona disabile negli ambienti frequentati); l’integrazione funzionale (estensione dell’i. fisica, accesso reale agli ambienti fisici, per es.: ristoranti, mezzi di trasporto. pescine, ecc.); l‘integrazione sociale, cioè gli scambi interpersonali che l’individuo stabilisce nel quartire, scuola, lavoro e nella comunità in generale; l’integrazione personale, vale a dire le interazioni con le persone più vicine: genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici, marito o moglie, bambini; l’integrazione societale è l’esercizio dell’autonomia nella scelta di decidere sulla propria vita e coscienza dei propri diritti; infine l’integrazione organizzazionale che è la capacità di utilizzare i servizi destinati alla popolazione in generale. Pertanto prima di discutere dell’integrazione del sordo nella scuola dovremmo porci  degli interrogativi se abbiamo programmato l’abbattimento delle barriere che egli incontra/trova nei contesti sociali e istituzionali. Se non ci adoperiamo prima che il sordo arrivi nelle strutture scolastiche confermiamo d’essere stolidi e incapaci d’aiutare il sordo. L’integrazione, di cui tanto vaticinano esperti e familiari, alla lunga diviene l’asino di Buridano.