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Il discorso sulla terminologia per indicare sordo, sordità, eccetera

Domenica, Gennaio 20th, 2008

Quando parliamo di deficit dell’udito e/o di difficoltà di produrre il codice verbale di chi parliamo? E’ noto agli interessati più aperti e ai dirigenti dell’Ente Nazionale Sordi che, sino all’approvazione della legge n. 95/2006, nel nostro Paese era adottata la terminologia “sordomuto”, con riferimento al soggetto nato sordo o divenutolo durante l’età evolutiva. (Qui bisogna aprire una parentesi per definire l’età evolutiva  considerando il sesso, la cultura, l’alimentazione, il clima… ). Comunque sia, nelle commissioni medico-legali per l’accertamento della disabilità la consueta definizione ufficiale era: “soggetto affetto di sordomutismo non dipendente da cause di guerra o psichica” (cfr. legge 381/1970, art. 1). Questa etichetta dava fastidio ai genitori che portavano a visita fiscale, davanti l’apposita commissione, i propri figli e si adoperavano poi per la riabilitazione logopedica. A metà degli anni Settanta del secolo scorso frotte di familiari e operatori consideravano la logopedia la panacea per acquisire la lingua verbale, di fatto la normalità del sordo. Avevano obbrobrio del termine “sordomuto”, lo rifiutavano considerandolo escludente e che confessava che la società era incapace di riabilitare. Tuttavia il presidente della commissione medico-legale per l’accertamento del… sordomutismo doveva rapportarsi ad un riferimento legislativo per i futuri benefici economici, protesici e occupazionali del soggetto. Ma quasi tutti i genitori pretendevano  che il presidente della commissione evitasse  la terminologia “soggetto affetto di sordomutismo” per “soggetto affetto di grave ipoacusia bilaterale con difficoltà di apprendimento del linguaggio”. Aggiungendo: “invalidità al cento per cento” (sic). Non considerava cioè la legge 381/1970, come era evidente; per aggirare la terminologia “affetto di sordomutismo” scaricava il piccolo o il soggetto in età evolutiva sulla legge degli invalidi civili, vale a dire la legge 118/1970. In seguito le associazioni delle famiglie dei sordi regionali, raggruppate nella Fiadda, proposero e diffusero il termine “audioleso”, che letteralmente significa, come è noto, audio-leso, riferendosi all’apparato uditivo. Ci sono sordi italiani che riprendono il termine a livello derisorio. Se chiedi a qualche burlone: “Tu odi bene?”. “Oh no, ho l’audioleso!” intendendo riferirsi alla protesi acustica inefficiente, o ad altri accidenti collegati all’apparato dell’ascolto. Comunque sia, audioleso si diffuse rapidamente tra i familiari dei sordi per evitare che qualcuno insistesse sul termine “sordomuto”.

Nella lingua anglosassone, negli Stati d’Uniti non esiste il riferimento al termine sordomuto, ma semplicemente deaf, sordo. Perché i sordi americani giudicano il proprio body - non solo nei tre centimetri quadrati delle orecchie inefficaci, da cui la carenza delle difficoltà intelligibili della parola per inadeguatezza dell’orecchio interno - nella globalità della persona capace di utilizzare altre modalità di comunicazione, d’uscire dalla nicchia della mutezza. Questa riflessione condusse la maggior parte dei sordi statunitensi, e dei Paesi nordici, a prendere coscienza della sordità, non solo come evento personale ma soprattutto sociale. Le comunità, prettamente quelle dei Paesi la cui lingua è forgiata sul ceppo latino, convivevano nelle diatribe interne di apparire protettori del sordomuto nelle istituzioni, negli enti speciali (del resto lo stesso procedimento sociopolitico riguardava i ciechi, i “matti” e così via). In Italia c’era chi lucrava sul pietismo dei “poveri sordomuti”, anche per le cospicue rette sborsate dalle amministrazioni provinciali, basti pensare che, per il conseguimento della quinta elementare, i sordi erano tenuti in istituto dieci anni! (cfr. R. Pigliacampo, Lo stato e la diversità, Armando, Roma 1983). C’era dunque timore che la nuova terminologia confessasse le potenzialità dei sordi, venissero liberati dalla soggezione all’udente e, dall’altra parte, c’era la proposa confusa, nevrotica d’imporre il cambiamento del termine da parte delle associazioni dei familiari, senza ascoltare i protagonisti adulti, credendo bastasse abolire il disonorevole “sordomuto” e/o opporsi all’Ente Nazionale Sordomuti, che conservava nell’ingresso delle proprie sezioni la dicitura, per aver risolto il problema dell’integrazione scolastica e sociale, affermando alla comunità che “il sordo non è muto”, che “i sordi parlano” e frasi di questo effetto. Il casino era assicurato, ma se non c’è chiarità di termini non c’è nemmeno comprensione del problema di base o specialistico.

Dopo un periodo di titubanza i sordi scendono in campo. Sono d’accordo che il termine “sordomuto” ha fatto il suo tempo. E poi perché muto? Sono concordi delle loro capacità e possibilità di comunicazione con modalità differenti, ma ugualmente efficaci. Virginia Volterra e altri studiosi di lingua dei segni approfondiscono la struttura del linguaggio dei segni riprendendo le ricerche e gli studi dello statunitense William Stokoe. Negli anni 2005 e 2006 i sordi italiani dimostrano la loro unità e capacità organizzativa dopo che il Senato della repubblica aveva approvato il termine di indicarli “sordi preverbali”: e allora scendono compatti davanti alle Prefetture italiane, la loro civile e insistente protesta induce il Parlamento a modificare la legge per il termine “sordo”! Qui sorge un’altra considerazione (non stupisce chi s’inoltra nel composito mondo dei sordi e della sordità):  sordo “come”, “quando”, “quanto”?

   “La mia sordità” mi dice il giovane amico e studioso Dr Daniele Regolo “non è la tua.” E’ così. Gli rispondo con le stesse parole.

   Mi fermo.

   Nelle prossime tappe dell’Itinerario approfondiremo.

Il Maestro

Giovedì, Gennaio 17th, 2008

Infinita molecola giaccio,
nel mistero buio avverra’
cosa?

Questa notte
vorrei vestirmi di luce
ed esplodere in Te.

Questa è l’ultima notte del mio cercare:
poi rotolerò nel cosmo
mistero di me che sarà colà?

(Sapere dove Sei nascosto,
Maestro d’un messaggio saudente,
filosofo nel formarmi uomo,
furbo austero oggi Ti cerco)

Quando per me una notte stellata?

L’universo infinito si tende
nell’impossibile calcolo del tempo,
oltre le soglie del pensiero
m’intimorisce il Nulla.

da Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, Pavia 2007.

Vogliamo essere noi stessi, padroni del Silenzio

Venerdì, Gennaio 11th, 2008

La comunicazione ci riguarda principalmente perché questa società (in particolare l’italiana) è fondata sul chiacchireccio. Si parla troppo senza porsi l’elementare domanda se l’altro ci ascolta o è in grado di seguirci. E’ un vizio non solo degli udenti. Sono in grado di dimostrare che i “fiaddisti”, cioè i sordi riabilitati nei centri del linguaggio gestiti dalla Fiadda, hanno gli stessi difetti delle persone che odono. Quando iniziano a parlare attaccano con un sermone che non finisce più! Mostrando di fatto di non saper dialogare. Per essi, l’interazione con l’altro, significa esclusivamente predisporsi per una perfomance logorrea. Costatazione esplicita che i nostri sordi segnanti e bilingui sperimentano con quella gente sorda orialista.

Tuttavia è bene che i sordi migliorino i rapporti con la comunità che utilizza esclusivamente la comunicazione verbale. Non è facile. Negli Uffici pubblici o sedi che hanno relazioni col pubblico i sordi gravi o gli audiolesi si trovano in una situazione peggiore rispetto agli immigrati. I quali ogni giorno imparano nuove parole per i propri bisogni. E il loro insistere con la domanda “come di chiama?”  li stimola ad imitare il modo di parlare e quanto opportuno per lo scambio socio-relazionale nell’ambiente in cui vivono od operano. La nostra associazione nazionale dovrebbe programmare Seminari per la gente di una certa età per la quale è impossibile seguire corsi di lingua dei segni; si potrebbe intervenire organizzando interventi, per chi è a contatto col pubblico, quindi anche con i sordi o gli audiolesi, in modo di istruirli sulle modalità di articolare l’apparato labiobuccale favorendo la labiolettura (…). Spiegando e parlando dei nostri problemi riusciremo ad eliminare i pregiudizi. Gli stessi docenti  specializzati - sulla carta - non sono specializzati né nella comunicazione né nei processi di apprendmento dei sordi. Sono stati catechizzati sulla fisima dell’integrazione che, per tantissimi di loro, è accettare-accogliere il diversamente abile (scegliete voi la terminologia che gradite!) a divenire normale, modello di maggioranza. Perché siamo tutti mormali quando interveniamo sul  “disabile”, prendendo per misura  noi stessi, credendoci prototipo della perfezione; anzi dal nostro punto di vista lo siamo, lo pretendiamo autoappiccicandoci l’etichetta in fronte. Pronunciare le parole “sei normale!”, “parla a voce e sei normale!” non costa mica un euro! Sono categorie di parole e frasi senza concettualizzare il problema della  specifica disabilità. Siamo nell’ignoranza di base. C’è un processo di rivisitazione di tutta la società perché riveda l’inclusione secondo i bisogni. Oggi si esclude perché non si conosce: e non si comprende perché vogliamo tutti essere standardizzati sul modello pubblicitario imperante. Quando il cittadino sordo si presena in uno status differenziato - perché sperimenta processi psicocognitivi sconosciuti al cosiddetto normale - la comunità di maggioranza se ne allarma. E’ allora che le forze del Silenzio più evolute e coraggiosevo devono proporre un modello di crescita  in cui siano messe in gioco le potenzialità intellettive per andare oltre. Perché avvenga c’è bisogno di giovani colti e capaci, che ragionino di sociologia e psicologia in senso generale per accedere alla leaders (almeno) nei gruppi della loro comunità. So che qualcuno penserà che sia presunzione. Non credo. Attorno ai sordi esiste troppa gente formata dagli udenti. Vorrei che i professionisti per i sordi siano formati dai sordi professionisti, così altri operatori. Siamo chiamati a compiere questo sforzo.

Parlare di pari opportunità e tutte le frasi fatte è solo demagogia di una giornata o di una riunione. Non vogliamo essere manipolati. Vogliamo essere noi stessi, avere gli strumenti di formazione per affrontare i nostri problemi, senza temere la sordità. Il nostro Silenzio sia trasformato in un processo coscenziale di esigenze specifiche che ci conduca a misurarci con gli altri. Bisogna creare un gruppo di giovani studiosi, o meno giovani, di differenti discipline in grado di saper rispondere ai professionisti della Salute e della Psiche con la forza (anche) dell’esperienza.

La monnezza, la garbologia… i politici campani.

Mercoledì, Gennaio 9th, 2008

La scena politica adesso è sulla monnezza della Campania. In un Governo in agonia cade a pennello.
Dovremmo studiare garbologia. Il primo a proporre lo studio della spazzatura è stato Alan Weberman in un suo libro su Bob Dylan: per conoscerlo meglio, aveva indagato persino sulla spazzatura che il cantante produceva. Il primo a considerare la garbologia una scienza è stato l’archeologo americano William Rarhje, che ne sviluppò gli studi all’Università dell’Arizona. L’idea è elementare: posso comprendere i comportamenti della famiglia Bianchi seguendone per un periodo gli scarti del cibo. Analizzando l’immondizia Rarhje ha suddiviso l’era dei consumatori in tre periodi: arcaico (1950-1961), classico (1962-1975) e decadente (1976-1980).
Nel tanto blaterare dei media sull’immondizia nessuno ha fermato l’attenzione sulla garbologia. Se qualcuno la avrebbe considerata, forse si capirebbe meglio Napoli. L’ignoranza in garbologia condanna tutti… compreso Di Pietro. Lo scaricabarile è stato enfatico, per un pugno di voti. L’Italia dei Valori della Campania, che siede in giunta, perché non ha minacciato tempo prima di andarsene? Se non sbaglio, proprio da quelle zone l’IdV ha avuto il primo transfuga (De Gregorio) e poi… mi fermo.  Mi mordo la lingua, azione di autocontrollo, ma anche di attesa che i vertici del partito prendano coscienza di doverlo dirigere democraticamente… se non vogliono restare nell’Utopia. E’ probabile che il percorso compiuto sia stata un’illusione, dando ragione – anche negli errori – a Di Pietro. Almeno lui ha più dignità, gli viene dal rispetto delle sue radici.

I politici campani (quelli della monnezza che non hanno saputo gestire) hanno approfittato del  porcellum elettorale per fare eleggere: la signora del Governatore Bassolino, la Carloni, alla Camera; il fratello del Ministro dell’Ambiente Scanio Pecoraro, al Senato; la moglie del Ministro di Giustizia Mastella… alla Presidenza dell’Assemblea Regionale. Si può continuare.
La verità è che a tutti quelli che in questi giorni stanno in passerella a recitare la loro parte si può porre la domanda che fece il grande Totò: «A proposito di politica, ci sarebbe qualche cosarellina da mangiare?». Hanno approfittato di una sporca legge elettorale per portarsi a tavola gli intimi, che gli hanno annebbiato il cervello producendo ancora più monnezza, oggi puzzolente come la cloaca massima.
  

Realtà nel Silenzio: esperienze

Sabato, Dicembre 29th, 2007

Ho letto recentemente una bella testimonianza di Martina Gerosa, architetto. Nata sorda, i genitori non si sono persi d’animo stimolandola a divenire se stessa, a superare l’ostacolo (…). Dell’esperienza nel/del suo mondo di Silenzio mi hanno colpito alcune definizioni che porto alla vostra attenzione.  Maestre e genitori, nel corso della vita, le hanno permesso di percepire la sordità come una «realtà amica». Scrive l’architetto Gerosa: «… talmente connaturata al mio essere che oggi non potrei immaginarmi udente.» Ponendosi poi la domanda: «Che cosa significa sordità?» Dice che un amico sordo, con la S maiuscola, le aveva risposto: «Mi sento sordo tra gli udenti, ma udente tra i sordi (…)» (Cfr. «Crescere e imparare insieme con una grave ipoacusia. Racconto di un’esperienza», in Handicap & Scuola, n. 136, nov.-dic. 2007, pp. 11-17). Proprio così. Mi viene in mente la risposta di un giovane udente, l’unico di una famiglia di sordi, anzi di generazioni di sordi: nonni paterni e materni, cugini, zii, zie… Si lamentava della sua condizione di udente perché, qualche decennio fa, per telefonare o avere contatti lontani non c’era né il telefonino né il fax. E il nostro giovane udente doveva servire, col suo udito, tutto il parentado. «Paolo telefona a questo»,  «Paolo telefona a quello»,  «Paolo avvisami se piange il bambino», «Paolo che dice l’amministratore del condominio?», «Paolo che dice la vicina?», eccetera. Un  giorno Paolo sbottò: « Buon Dio perché non mi hai donato la sordità?!».  Per Paolo era un dramma ascoltare perché doveva sobbarcarsi un servizio per  i sordi che la comunità di maggioranza aveva dimenticato. Il dramma della sordità, ancora oggi, è la mancanza di persone qualificate per rispondere ai bisogni dei sordi. Qualcuno può dire, nel costatare il servizio di interpretariato per i sordi, che  è soggezione, condinzionamento dipendere da altri. Ci sono, è vero, abusi dall’una e l’altra parte. Talvolta qualche interprete non è professionale e, per professionalità, intendo riferirmi a chi traduce meccanicamente, senza conoscere i contesti, i significati dei lessemi; pensiamo al linguaggio degli psicologi, dei medici, dei sociologi, degli architetti e così via. Occorrono interpreti adeguati ai professionisti che tengono un seminario, una lezione universitaria, cioè personale segnante laureato nella disciplina. L’architetto Gerosa ci comunica molte verità, conosciute dagli stessi sordi. Per esempio ribadisce la difficoltà della labiolettura sulle labbra di talune persone; lo stimolo, spesso fondamentale per l’intelligibilità della parola, delle vibrazioni; la serenità dei genitori uniti di vivere la sordità della/del figlio/a; la presenza, senza oppressione e ansia, del tutor esperto; la presenza nel soggetto di un’altra modalità di comunicazione; l’amore per la lettura; la curiosità culturale; la sdrammatizzazione degli insegnanti, dei familiari e del parentado sulla diversabilità. Ho incontrato tante persone sorde in questi anni che, all’incirca, il loro successo era fondato sul curriculum indicato.

A metà degli anni Settanta  del secolo scorso i laureati sordi si contavano sulle dita di una mano. Del mio gruppo mi ricordo del Dr Sebastiano Montalto, medico analista all’ospedale civico di Palermo, del Prof. Luigi Rizzo, docente di Lettere al “Magarotto” di Padova, del Prof. Carlo Semplici di Siena, docente di arte e disegno nei licei e di pochi altri di cui mi sfuggono i nomi. Oggi i  sordi di nascita o divenutili in età evolutiva laureati in Italia sono circa 150-200. Ci sono fisiatri, pedagogisti, psicologi, sociologi, biologi, medici, architetti, qualche docente universitario, ingegneri, statistici, avvocati amministrativi e così via e numerosi “dottorini” (laurea triennale). Possiamo affermare che le Università stanno adottando un atto di giustizia per trasformare l’alta cultura accessibile anche ai sordi gravi o agli audiolesi con la presenza del «prendiappunti» o di strumentazioni decodificanti il verbale, o dell’inteprete dei segni per chi conosce la LIS. Con l’approvazione  recentemente del consiglio dei ministri del Decreto legislativo sulla fruizione della Lingua dei Segni molti sordi  sono diventati coscienti delle proprie esigenze e diritti di partecipazione. La vecchia domanda del professore «Hai capito?» che per lo più dava una risposta affermativa, ma bugiarda, oggi il sordo l’ha trasformata in una veritiera che lo conforta: «Non ho capito perché non sa spiegarmelo.» Oppure: «In quest’aula non ci sono strumenti e personale perché io possa partecipare al processo cognitivo.»

Quando il professionista è sordo

Venerdì, Dicembre 21st, 2007

Spesso la mancanza d’ascolto per mezzo del senso d’udito mi impedisce, di fatto, comprendere quanto dice l’interlocutore: e questo diventa più evidente quando si è in gruppo. Perché ti blocca nel dibattito, di precisare. A me succede nel «gruppo udente». Quasi tutte le mie riunioni professionali o di approfondimento di ricerche e studi sono con persone udenti. Mi ricordo che quando esercitavo la professione di psicologo all’ASL di Civitanova Marche-Recanati sopportavo uno stress gravoso con i colleghi durante le riunioni settimanali, taluni bravi nell’impegno professionale e terapeutico, ma disattenti nel calarsi nella mia condizione di sordo. Innanzitutto le riunioni avvenivano senza considerare la posizione di chi prendeva la parola; ci si siedeva attorno ad un tavolo rettangolare, badate bene scrivo rettangolare e non rotondo o a mezza luna, e chi è sordo sa bene perché. Le labbra di chi parla sono ovviamente «personali», vale a dire possono essere con gli angoli rivolti all’insù, con gli angoli rivolti all’ingiù, con labbro superiore sollevato da un lato, con labbro superiore debordante, con labbro inferiore sporgente, con labbro superiore sporgente, con labbra carnose, con labbra sottili, con labbra serrate, con labbra socchiuse (…). Io, per seguire i colleghi che intervenivano per proporre la soluzione su un caso da trattare, dovevo allungare il collo passando dal movimento delle labbra di un collega all’altro, carpendo di fretta qualche termine o intuendone un altro, e dalle smorfie o dagli scatti d’ira del collega dovevo “costruire” l’argomento del quale si dibatteva. Non è facile entrare nel contesto per suggerire la soluzione quando non hai chiara coscienza del problema. Accumulavo stress che mi prostrava; di più mi umiliava il risetto ironico di un collega allorché sbottava incavolato: «Dr Pigliacampo che c’entra quel che dice con l’argomento proposto?!». Ero evidentemente fuori tema. Quelle improvvise sortite mi mettevano kaputt.  I colleghi si spremevano le meningi per la soluzione “del caso”: e le mie sortite estemporanee li irritavano e confondevano. Passavo per kofos, sciocco, vuoto. Oh, ma non sono il tipo che si perde d’animo io!Spesso trovavo soluzioni per l’impossibile. Più che «impossibile» bastava riflettere, mettersi nella situazione dell’altro perché lo svantaggio fosse risolto. Negli anni capirò che le difficoltà dei sordi le creano gli udenti perché non vogliono modificare le comodità dello statu quo.

E allora per risolvere il mio problema di comunicazione, durante le riunioni settimanali con i colleghi, puntai un giorno incazzato nell’ufficio del direttore sanitario dell’ASL urlandogli che non poteva obbligarmi a partecipare alle riunioni con i colleghi, ai corsi di formazione e di aggiornamento quando mi era impossibile labioleggere od entrare in relazione con i presenti. Il direttore sanitario, serafico, mi fece cenno di sedermi. «Allora Dr Pigliacampo» disse «l’interprete può essere fornito ad un sordo poco istruito o che svolga attività dequalificata, ma lei ha due lauree e un dottorato di ricerca!» La mia rabbia era centuplicata incendiandomi il volto. «L’interprete di lingua dei segni mi permetterà di comprendere perché, purtroppo, mi è difficile labioleggere l’interlocutore: muove la testa a destra e a manca, va di fretta o si mangia le parole, e le labbra…. »

   «Ah, allora vuole proprio quello che fa i gesti?» disse con ironia il direttore sanitario.

   «Senta, dottore» risposi altezzoso «non è quello che fa i gesti come lei dice, è una persona specializzata che traduce da una lingua in un’altra lingua, vale a dire dalla lingua verbale alla lingua visuomanuale e viceversa.»

   «Veramene… » scrollò il capo. Poi osai una frase offensiva senza emettere un fil di voce.

   «Sa che cosa le ho detto, dottore?» dissi.

   «No.»

   «Meno male! Per mia fortuna non è capace di labioleggere. Se non riuscite voi udenti che vivete ‘dentro’ le parole da sempre, come potete obbligare noi sordi a labioleggervi?»

   «Ho capito» disse. Di lì a qualche secondo alzò il telefono per chiamare la dirigente del servizio formazione e aggiornamento del personale per chiederle se, in bilancio, era prevista una spesa per il servizio di interpretariato o di traduzione. Passarono alcuni minuti. Poi  sulle labbra del direttore sanitario labiolessi «Tutto ok. Vada.»

Nella riunione della settimana successiva avevo a disposizione un interprete di LIS che “traduceva” gli interventi dei colleghi. Fu allora che mi accorsi delle mie capacità professionali che superavano di lunga quelle dei colleghi udenti; mi stupivo quando mi accorsi che trovavo soluzioni appropriate, e per me ovvie, per risolvere le problematiche degli utenti. Un giorno venne nella mia ASL un noto studioso americano per un seminario d’alta qualifica, e vedendo il mio interprete tradurmi i contenuti della relazione, con un sorriso durante una pausa, ebbe a dire:

   «Finalmente gli italiani usano meno la lingua e più le mani.»

La padronanza della lingua

Venerdì, Dicembre 14th, 2007

C’è qualche lettore del Blog che sollecita di portare esempi, prove, delle affermazioni sulle difficoltà di scolarizzazione dei sordi. I riscontri sono evidenti, basta contattare i docenti cosiddetti di sostegno (spesso inconsapevoli) che hanno in carico un audioleso o sordo, verificandone l’approccio interrelazionale col proprio scolaro, e la didattica adottata, per avere risposte esplicite (…). «Ho riflettuto sul fatto che l’unica cosa da fare consisteva rappresentare esattamente la lingua parlata con la visione, in tempo reale» ammette R. Orin Cornett. La sordità non è una malattia ma una filosofia, uno status. Noi sordi ci lamentiamo spesso di non essere compresi nel nostro essere sordo. Vero per un’alta percentuale. Parecchi però si fermano qui. Giunge a pennello la riflessione di Bochner e Albertini (1995): «La padronanza di una prima lingua nell’infanzia stabilisce le basi neurologiche per l’apprendimento delle lingue nell’età successiva e adulta. Se la padronanza in una prima lingua non è stata raggiunta all’inizio dell’adolescenza, come succede di solito nella popolazione sorda, il progresso nell’acquisizione è inibito o soppresso.» La maggior parte dei sordi resta senza una lingua principale: né lingua dei segni né lingua verbale. L’impianto cocleare non può supplire completamente alle carenze percettive dell’acustico-vocale; lo stesso è quando pretendiamo che il bambino sordo vada alla «scuola di linguaggio» pensando che, parlare, sia prerogativa esclusivamente di un processo meccanicistico, lontano dallo sviluppo dell’inconscio; si apprendono i segni linguistici, i codici di una lingua appunto, le regole grammaticali con cui ci caliamo nella dialogicità dell’interlocutore, ma non «il linguaggio»; nel sordo, con la  carente percezione del segno vocale, viene meno anche la conoscenza del gioco dei segni nell’ambiente, vale a dire nella comunità o gruppo in cui vive e interrelaziona. Molti sordi, quando parlano, sono scambiati per stranieri, proprio perché «imparano» la parola cognitivamente, ma non possono appropriarsi dell’accento, prerogativa di chi ascolta.

Trenodia di poeta

Giovedì, Dicembre 13th, 2007

Non stupirti, poeta, se la tua follia
di rincorrere parole d’amore
non accosti il volo dei sogni;
non crucciarti se le tue parole
rimarranno sorde alla gente
tanfata dal gruppo di potere;

dal volto non scendano lacrime
per chi non accoglie il tuo canto
che poni sulle ali del vento
nelle sere vaganti per il porto
dove alberghi per nascondere
al vecchio pescatore solitudini
del «borgo selvaggio di mare». (1)

Mai sarai vincitore in vita.
Sei tra il bene e il male,
di te ragionano con poco senno
senza approfondire la storia.
Sei cerchio di luce
nei raggi di sole che splende
sull’ultimo giorno di vita.
Testardo vai sino in fondo,
sì testardo per riempire l’urna
dove dormono le tue ceneri.

Forse qualcuno - pia illusione -
fermerà lo sguardo sui tuoi occhi
che puntano dall’avello l’orizzonte.

1. Riferito a Porto Recanati, in contrapposizione a “borgo selvaggio” (Recanati).
da Renato Pigliacampo, L’albero di rami senza vento, Iuculano editore, Pavia 2007. (info@iuculanoeditore.it)

Itinerario di Silenzio (Parola che sorge)

Martedì, Dicembre 11th, 2007

Mi rendo conto del valore e del gran dono della comunicazione allorché, partecipando qualche tempo fa ad un convegno de La Spezia, ho  incontrato Claudio Imprudente di Bologna. Egli, incarcerato tetraplegico, ha per esprimersi solo la «lingua degli occhi». Il suo assistente-interprete gli mette davanti alla visione una tavoletta alfabetica. Claudio ‘punta’ la lettera che lo interessa come il falco la preda. L’interprete «costruisce» la frase. Che fatica compie Claudio per destreggiarsi nel linguaggio degli occhi, per generare una ruga che significa emozione, il batter di ciglia che vuol dire ironia.(…) Ma pure la bravura dell’interprete attira stupore allorché decofica quegli occhi che svicolano via, anzi talvolta seducono la sinuosità della lettera. Gli occhi di Claudio seguono una grammatica precisa. Leonardo da Vinci aveva già scoperto la ricchezza del saper osservare. Molti udenti «sentono» ma non «ascoltano» la profondità della parola. Lo stesso i vedenti «vedono» ma non «osservano». Il nostro novello Socrate, con l’ausilio dell’interprete, riesce nella maiuetica della parola: eccola, è nata, inducendoci a riflettere quanta pochezza d’attenzione le diamo, anzi la prostituiamo per il nostro tornaconto proprio perché non valutiamo quanta fatica costi all’uomo che la veicoli pregna di idee e sentimento. Vorrei che i chiacchieroni o chi se le ritrovano pronte nelle orecche assistessero alle conferenze di Claudio Imprudente! E i giovani, soprattutto loro per imparare a rispettarle, spogliandole dalla superficialità e dal conformismo, ne penetrino l’essenza profonda socratica. Per Claudio Imprudente, a Lerici, dove i più noti poeti europei hanno arricchito il loro Canto, ho sollecitato il mio estro a testimoniare il coraggio di Claudio nelle parole che ci ha donato. 

PAROLA CHE SORGE

Nel golfo dei poeti, in Lerici azzurra
assisto ad una preghiera da Villa Marigola
di Claudio Imprudente tetraplegico
che punta gli occhi sull’alfabeto
per dirmi che vita è amore e pena.

Segno d’una parola che scende e sale:
egli la ricrea e lancia agli smarriti presenti.
Così io giunto dal Colle dell’Infinito
confermo il Silenzio del mio destino
nel mio essere segnante
comprendo la fortuna
di queste mani libere.
Apro gli occhi per vedere parole
e apprendo da te, Imprudente,
che la vita è coraggio e lotta.

Il Cavaliere e i politici “attori”

Lunedì, Novembre 26th, 2007

Questa politica ha un senso?
Il Cavaliere ha fondato due partiti. La spaccatura dalla Cdl era stata preceduta dalla fondazione dei Circoli della Brambilla, “partito sponda”. L’astuzia del Cavaliere fa morire la politica, o almeno il pathos, la passione presenti in chi chiede il consenso per rappresentare, disinteressatamente, la gente, i problemi, le esigenze (…).
Berlusconi, al contrario, invecchiando peggiora. Megalomane che non ha paragone. Il cantautore Paco Ibañez, spagnolo, in un’intervista a Rita Sale de Il Messaggero, ha detto: «Io so soltanto che la gente vuole vestirsi dentro, nonostante la società oggi tende, sempre più, a volerci vestiti fuori.» Il vero poeta è chi dialoga col sentimento, stimola emozioni. Idem il grande politico perché favorisce la genesi dalla «cosa pubblica» di una chance: una «cosa di tutti». Nel caso del nuovo partito di Berlusconi, nato motu proprio, la «cosa» è esclusivamente sua. Perché non c’è nulla che tale partito possa offrire alla società, essendo la sua politica azione per il fine di se stesso: rispondere alla propria megalomania e conservare lo status economico. La politica reale è un processo d’integrazione tra «il» politico e la comunità, dapprima generale e poi specifica, di provenienza insomma di chi ha fornito la delega.
Un’attenta analisi psicologica del Cavaliere, anche delle citazioni, mostra evidenti disturbi della personalità: «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano zucche e li ho trasformati in prìncipi.» Si riferisce a Casini e Fini. E’ come si dicesse: voi due non siete niente, tacete e seguitemi. Una sortita che potrebbe essere accolta in un contesto familiare o amicale, ma che è inammissibile per due politici che rappresentano degli elettori, a cui dovrebbero  rispondere con programmi e scelte. «Vorrà dire che io mi tengo gli elettori e loro i progetti!» La sicurezza psicologica giunge a Berlusconi non certo perché abbia idea del bene comune, ma perché ipnotizza la massa degli ingenui e analfabeti sociopolitici a cui rivolge il suo verbum. Non ci credete? Lo dice lui stesso: «Ho un complesso di superiorità che devo tenere a freno.» Per far perdere la bussola a Berlusconi (col rischio di essere distrutti… perché ha esperti comunicatori al suo servizio proprio per imbrogliare mediante i media) e metterlo all’angolo, il nuovo Pd, lo stesso Veltroni e il duo Casini-Fini, l’hanno reso un «re vestito solo di banconote». La Cdl è finita perché per il Cavaliere, lo dice il ministro di FI del suo primo governo Stefano Podestà, «il principio è uno solo: qui comando io». A chi non l’ha capito, lo ripetiamo: Berlusconi non è né sarà mai un politico, poiché si serve della politica per due motivi: salvaguardare il suo patrimonio economico e/o aumentarlo, tacitare il vuoto e la solitudine interiore con le smargiassate e le aspirazioni assolutistiche che dice di avviare «per amore del popolo». E’ ciò che affermano tutti i dittatori; ma non lo amano, lo utilizzano.
L’Italia non ha necessità di politici «attori». E’ opportuno ricordarlo per vigilare e capire.